Un terzo di montagna

1.

«Devi rassegnarti,» dice il ragazzo con l’apparecchio ai denti. «Nessuno si è mai fermato per così poco tempo.»
«La mia situazione è diversa» ribatte Luca. «Mi hanno assicurato che la mia permanenza durerà fino all’estate.»
«Oh, ma davvero?» Il ragazzo con l’apparecchio ai denti sfodera un ghigno e Luca non può fare a meno di notare che gli si è depositato dello sporco sotto le placchette di metallo. «E chi te l’ha detto? L’assistente sociale? La direttrice? Non ascoltarli. Lo fanno per tenerti buono.»
«Ma è la verità.»
«Ti aspettano come minimo due o tre anni.»
«Non ci credo.»
«Fidati. So come girano le cose qua dentro.»

Non era come me la immaginavo. Ammesso si possa immaginare un posto di cui si ignora l’esistenza.
Quando fui assegnato alla comunità per adolescenti di Rio Guado, mi aspettai di trovarmi in un reparto ospedaliero. Oltre alla puzza di disinfettante nei corridoi, avrei dovuto sopportare le battute dei colleghi sulla mia età. O almeno così mi diceva la frustrazione. Io speravo saltasse fuori un lavoro per una società finanziaria ed ero tentato di lasciare questo incarico a un ventenne fresco di studi.
Ma i miei genitori si sarebbero opposti con tutte le loro forze a ogni tentativo di diserzione. Mi avevano obbligato a iscrivermi al bando. Mi raccomandarono di prepararmi e di non fingermi sociopatico al test attitudinale. Se replicavo che avrei guadagnato un terzo rispetto al mio vecchio stipendio da impiegato, mi invitavano a tornare a casa per non pagare le spese di vitto e alloggio. Nei loro sogni, ero destinato a ripetere una vita da studente con i soldi contati per la birra.
Mio padre scopriva all’età di sessant’anni che ospitavamo sul nostro territorio una comunità. Avrebbe preferito vedermi aggirare tra gli scaffali della biblioteca comunale, piuttosto che in mezzo a ragazzi con disturbi mentali. I figli dei suoi amici avevano svolto tutti il servizio civile in biblioteca o al museo della radio. Non capiva perché costituivo un’eccezione.
Nemmeno io avevo mai sentito parlare di una comunità attiva dalle nostre parti dal 1994. A sorpresa, l’indirizzo non corrispondeva a quello dell’ospedale. Si trovava in una via laterale del quartiere dei negozi. In centro e a due passi dalla stazione. Anche dopo aver saputo queste informazioni, non ero in grado di risalire alla sua posizione esatta. Era in una zona residenziale di villette e condomini di due o tre piani al massimo. Di notevole, c’erano un parcheggio a ore, un CAF e una pizzeria d’asporto.
Alla lista potrei aggiungere un’abitazione privata. La casa dalle pareti verdi azzurre di Flora, una ragazza che frequentava la mia stessa compagnia ai tempi del liceo. Nonostante non fossi di strada, toccava sempre a me riaccompagnarla a fine serata. I miei amici dicevano che non aveva rispetto per il gruppo. La rimproveravano di essere aggressiva e di non darla a nessuno. Ricordo con lei soltanto conversazioni di circostanza. A volte però mi schiudeva il suo piccolo mondo, additando un cancello o l’altro della sua via. «Qui abita la mia maestra delle elementari.» «I miei stanno valutando di comprare questa casa all’asta.» «Quando ero piccola, c’è stata una sparatoria sotto il nostro balcone». Ero quasi sicuro che nelle sue rassegne non avesse mai fatto riferimento alla comunità. Magari un giorno, uscito dal lavoro, l’avrei incrociata e ne avremmo parlato.
Al momento però non nutrivo alcuna curiosità per la struttura e non tentai un sopralluogo. Mi tornò alla mente, insieme alle passeggiate serali con Flora, una mia lettura giovanile. La storia di un monaco buddista ossessionato a tal punto dalla bellezza del Padiglione d’oro da incendiarlo. Chissà se il mio disinteresse si sarebbe trasformato in un vero e proprio culto morboso, come succede al personaggio di Mishima. Per quel che mi riguardava, la comunità poteva andare a fuoco, ma solo per rimandare il più possibile la mia entrata in servizio.
Ovviamente non si registrarono incidenti di origine naturale o dolosa. Anzi, contro le mie previsioni distruttive, la responsabile mi disse al telefono di presentarmi una settimana prima della data convenuta.
Scartata l’ipotesi del reparto ospedaliero, continuai a figurarmi gli stessi interni asettici, intrisi della puzza di disinfettante. Da quando ero rimasto senza lavoro, i pensieri prendevano direzioni inaspettate. Arrivai a chiedermi il motivo per cui ero stato selezionato dall’ente promotore. Non mi ero mai occupato di educazione né di assistenza sanitaria (e se il progetto fosse in realtà un percorso? In comunità. Da utente. Che sarebbe durato anni?). Ero riluttante a iniziare il servizio civile, ma almeno avrei scacciato la negatività che colpisce un disoccupato.

Non ero abituato a chiamare il curriculum domanda, lo stipendio indennità, il contratto progetto, il lavoratore volontario. Ma ancora meno ero abituato a sostenere un colloquio di selezione nella sala d’aspetto di un centro psichiatrico.
Avevo provato e riprovato la mia presentazione senza mai essere soddisfatto della performance. Davanti allo specchio, tenevo sotto controllo i muscoli del viso, mentre le mani gesticolavano senza freno. La voce mi usciva poco pulita e tendeva ad abbassarsi. La difficoltà più grande riguardava però il contenuto. Cosa potevo dire di me stesso? Che ero un esperto contabile? Che avevo imparato a relazionarmi con gli altri, nonostante le mie inclinazioni contrarie? Che mi sarei occupato del registro spese della comunità? Forse il colloquio serviva a verificare le mie condizioni di salute mentale. In quel caso, mi sarei sentito più a mio agio a descrivere le macchie di Roscharch, al posto di raccontare i miei trascorsi.
Quando arrivai al centro, un uomo sulla quarantina strattonava i braccioli della poltrona. Al mio passaggio sprofondò nello schienale, mostrando solo la testa o, meglio, i capelli ingellati e tinti di viola.
«Che ore sono?» chiese alla signora accanto a me.
«Se cinque minuti fa erano le dieci, adesso sono le dieci e cinque,» rispose senza scomporsi, mentre si sistemava il cappotto sulle ginocchia.
«La dottoressa è in ritardo.»
«Non è in ritardo» replicò. «Sta visitando un paziente.» Poi si rivolse verso di me: «Come minimo avrà l’appuntamento a mezzogiorno.»
Abbozzai un sorriso. La donna ricambiò con una smorfia. Se avessi dovuto scommettere sul motivo della sua presenza a un centro psichiatrico, avrei puntato sul fatto che era venuta a ritirare la ricetta dimenticata da un parente.
«Ma tu non sei il nipote di Lena?»
«Conosceva mia nonna?»
«Chi non conosce la bidella storica di Rio Guado! Mi è dispiaciuto quando è morta. Ma quanti anni aveva? Non era così anziana, o sbaglio?»
«Ne aveva compiuti ottantuno la settimana prima.»
La gente sopra i quarant’anni d’età mi identificava come il nipote di Lena. Di solito, si premuniva di farmi sapere il cognome o che era figlio del postino o dove abitava. Io fingevo di riconoscerla e promettevo di riportare i saluti a mia nonna. Persino l’uomo che aveva chiesto l’ora, se era originario delle nostre parti, sicuramente la conosceva e ne conservava un buon ricordo.
«Una donna autorevole. A scuola era rispettata più delle insegnanti,» disse fiera delle sue parole di epitaffio. «E tu invece come mai sei qui?»
Ero convinto che la regola non scritta dei centri psichiatrici fosse evitare di informarsi sui disturbi mentali altrui.
«Io veramente ho un colloquio di lavoro,» restai sul vago. Mi indisponeva parlare di servizio civile.
«Guarda che non c’è niente di cui vergognarsi ad avere bisogno dello psichiatra. Mica ci vanno solo i matti,» lanciò un’occhiata all’uomo sprofondato nella poltrona. Come obiezione, si udì un lamento provenire dall’invisibile gorgo in cui stava precipitando.
«Ci mancherebbe,» dissi. «Ogni tanto prendo anch’io delle gocce per dormire.»
«Bah.» Non era persuasa.
Per fortuna, la dottoressa arrivò in mio soccorso. Appena la vide nel corridoio, l’uomo risalì dalla poltrona. Si spinse in avanti aggrappandosi ai braccioli. Ma fu invitato a risedersi. Non era ancora il suo turno.
«Prego, Gabriele. Si accomodi.»
Il tavolo sembrava un piano cottura senza fornelli. Sul un lato erano appese delle lettere magnetiche colorate, che formavano una scritta priva di significato. Salvo estrometterne o aggiungerne qualcuna, se si combinavano vocali e consonanti in modo diverso, il risultato non cambiava: BANCI – CINAB – BACIN – IBANC .
La dottoressa si avvicinò alla finestra e la chiuse: «Lo so che fa un freddo cane, ma un paziente ha insistito perché la lasciassi spalancata.»
Le sue parole ebbero su di me un effetto rilassante. Le aveva pronunciate con affetto, come se si fosse scusata dei giocattoli sparsi per casa dal suo bambino. Non avvertii pressione nemmeno quando sfilò la mia scheda da una cartelletta verde.
«Il suo profilo corrisponde alla posizione richiesta dalla nostra comunità. Ne siamo convinti io, la responsabile, la mia collega psicologa. Non c’è molto da aggiungere.»
Con la coda dell’occhio guardai i dati sulla scheda. Erano i miei. Riconobbi il mio nome e l’indirizzo della casa dei miei genitori. Non avevo ancora ufficializzato sui documenti il cambio di residenza.
«Sono venticinque ore a settimana. Quattro di riunione. Due ore di report. Può compilarlo benissimo a casa. Per la maggior parte del tempo, parteciperà alle attività con il ragazzo che le è stato affidato. Se trascorrete la mattina da soli, il pomeriggio unitevi al gruppo degli utenti e viceversa. Questo è tutto. Ha domande?»
«Dovrò seguire un ragazzo quindi?»
«Sì, ma non si preoccupi, è un tipo tranquillo, silenzioso. Non crea problemi.» Scorse la mia scheda con la punta della penna e segnò delle X alle caselle. «Luca è qui da noi da pochissimo tempo e vuole già scappare. Deve ancora adattarsi. Crediamo abbia bisogno di un sostegno psicologico, di una figura con cui confrontarsi e che non avverta come troppo più grande di lui.»
«Capisco,» dissi, anche se in realtà non capivo. Non avevo la sensibilità adatta a consolare un adolescente. Al massimo, avrei potuto insegnargli la partita doppia.
«Sia chiaro, non c’è una sentenza del tribunale dei minori che lo obbliga a restare. Gli è stato però consigliato questo percorso dalla sua dottoressa, dopo un ricovero ospedaliero. Sarebbe una sconfitta per tutti, se decidesse di abbandonare la comunità di punto in bianco. Si incrinerebbero i nostri stessi valori di formatori, non crede?»
«Ma perché si trova così male? Gli è successo qualcosa?»
«Non accetta la sua malattia e da noi si sente un pesce fuor d’acqua. Ma lo chieda a lui direttamente. Lo faccia parlare, mi raccomando.»
Uscii dal centro con il rimpianto di non svolgere il servizio civile rimproverando i lettori che consegnano in ritardo i libri della biblioteca.

Avevo dimenticato come ci si sente al primo giorno di lavoro.
Mentre mi sforzavo di addormentarmi, si affastellarono ricordi privi di memorabilità. Conversazioni sterili e avvenimenti di tutti i giorni. La cassiera che mi chiede di ripesare le albicocche: «Scusi. Non mi legge il prezzo». Scaldai a microonde l’acqua per la tisana, ma fu inutile. Non mi conciliarono il sonno nemmeno i film della fascia notturna.
All’università ero diventato apprendista contabile presso lo studio di un amico di mio padre. Trascorrevo la maggior parte del tempo davanti a un software gestionale o all’aperto a sbrigare commissioni, come pagare le bollette e ritirare le ordinazioni per il pranzo. Qualunque mansione, pur di non parlare al telefono con i clienti. Ero impacciato. Non sapevo rispondere alle domande senza consultarmi con i colleghi. A volte spazientivo l’interlocutore, che si convinceva a torto di essere preso in giro. Per ironia della sorte, negli anni successivi non avrei fatto altro che questo.
Dopo l’apprendistato, entrai in un istituto di credito per sostituire una donna in maternità. All’inizio era un vero incubo. Non riuscivo a ritagliarmi un’ora di isolamento. C’era sempre qualcuno a cui dare retta e se i clienti non mi trovavano al telefono, venivano direttamente in ufficio. Volevo approfittare delle vacanze di Pasqua per presentare le dimissione. E invece rimasi là dentro quasi sei anni.
Gli amici della mia compagnia cambiavano lavoro ogni volta che uscivo con loro. E chi aveva una posizione stabile continuava a sostenere colloqui, anche se non accettava la proposta economica. Io alla fine mi abituai alla routine dell’ufficio. Ritenevo assurdo passare il mio tempo libero a leggere annunci davanti alle vetrine delle agenzie. Mi bastava portarmi a casa lo stipendio. Poi arrivò la crisi, ma preferii chiudere gli occhi e pensare che i tagli del personale non mi avrebbero riguardato.
Prima di scendere controllai di aver spento la lampada da tavolo. Di giorno, la sua luce era fioca. Dovevo premere diverse volte l’interruttore per accorgermi se la conchiglia da dove fuoriusciva la madonna era illuminata o meno. Mi voltai verso il ritratto di San Rocco sopra la specchiera. È difficile sentirsi incoraggiati da qualcuno che si si alza la tunica per mostrare i segni della peste sul proprio ginocchio.
Casa mia era piena di oggetti religiosi. Appartenevano a mia nonna. Dopo la sua morte sono andato a vivere in casa sua, ma non li avevo ancora rimossi. Non tutti almeno. Regalai i più ingombranti a una pesca di beneficenza. Ma ce ne avevo ancora molti e non sapevo come disfarmene, senza ricorrere alla discarica. Uno di questi era una boccetta con l’acqua benedetta del santuario di Caravaggio. Ero tentato di bermela d’un fiato, talmente mi sentivo giù di morale. Non pretendevo un miracolo. Volevo tornare alla mia solita vita.
Sulle scale incontrai la mia dirimpettaia con in mano le borse della spesa. L’odore del pollo arrosto mi avvisava che era giorno di mercato. Ogni giovedì mattina, lei e mia nonna avevano preso l’abitudine di fare un giro tra le bancarelle e di comprare un pollo da dividersi al furgoncino vicino alla piazza. Ora la metà avanzata spettava a me. Io ricambiavo di tanto in tanto con qualche souvenir proveniente da Lourdes o Pietrelcina.
«Io rientro e tu esci. Giusto così. Eh! Eh!» Sorrise. Poi appoggiò le borse sul pianerottolo e si fermò a riprendere fiato.
«Le do una mano. Prendo io la spesa.»
«Vuoi mangiarti anche la mia parte di pollo?» Nascose le borse dietro la schiena e le uscì una voce stridula: «Non si fa!»
A quanto pare, la mia vecchietta aveva voglia di scherzare. La mia presenza nello stabile aveva attenuato il dolore della perdita dell’amica. Entrambe erano rimaste vedove in giovane età e si erano fatte forza a vicenda, fino a diventare inseparabili. Nelle settimane seguenti al lutto, se mi vedeva in paese, mi raccontava quanto mi volesse bene mia nonna. Mi dava un buffetto e scoppiava a piangere.
«Mi arrendo,» stetti al gioco. «Con lei in circolazione, mi chiedo come sia possibile derubare i pensionati fingendosi ispettori dell’Enel.»
«Io non faccio entrare in casa nessuno,» alzò in aria l’indice. Lo ritrasse e mi squadrò. «Tu non conti. Sei stato presentato,» aggiunse. «E tua nonna era più diffidente di me con gli estranei.»
Era vero. Se arrivava l’idraulico per riparare la perdita d’acqua, mia nonna lo lasciava fuori dalla porta e si faceva dare le istruzioni.
«Vai al mercato adesso o farai tardi.»
«Veramente, sto andando al lavoro.»
«Quelli della finanziaria ti hanno ripreso?» Non mi diede il tempo di risponderle, che con i suoi baci mi bagnò le guance di saliva. «Sono contenta!»
«Non proprio,» mi liberai dalla stretta. «Ho trovato un altro posto.»
«Il servizio civile? Giusto? Mi aveva accennato qualcosa tua madre.» Afferrò una bottiglia di spuma da un sacchetto e ne bevve una lunga sorsata.
«Sì, almeno sono vicino a casa.» Mi resi conto di non averlo detto come giustificazione, ma per ricevere in cambio una pacca sulla spalla.
«Siamo in crisi e stai lavorando. Dobbiamo festeggiare.» Guardò la bottiglia che teneva in mano e la avvitò. «Non con la spuma, ovvio.»
«Il nostro solito bicchierino di idromele?»
«Buona idea,» disse. «Stasera quando vieni a ritirare il polletto, facciamo un brindisi.»
«Volentieri.» Guardai l’orologio. Era ancora presto.
«Ora vai. Non arrivare in ritardo per colpa mia.»
«Ho ancora tempo,» la rassicurai.
«Puoi farti un giro al mercato.»
«In effetti, stavo pensando proprio a questo. La saluto.»
Scesi le scale con il gatto pezzato di un’inquilina. Avrei dovuto riportarlo alla sua padrona, ma mi aveva sempre inquietato l’espressione minacciosa derivata dalle tumefazioni sul muso. Inoltre, mi era salita l’ansia e non vedevo l’ora di camminare all’aria aperta. Nonostante le intenzioni manifestate alla mia dirimpettaia, avrei evitato la confusione delle bancarelle, scegliendo vie secondarie.
«Ehi!» Mi diede una voce dal pianerottolo. «Dopo il brindisi, ho una proposta da farti.»
«Va bene,» risposi. «A stasera.»
Data la mia condizione, si sarebbe probabilmente offerta di pagarmi la connessione a internet.

Per strada c’era una confusione di gente, che il freddo delle precedenti settimane era riuscito a tenere a bada, persino nei giorni di mercato. Mi sembrava di essermi svegliato alla fine della sessione invernale. Ho un’immagine di me che accetto il 25 a cui ero abbonato, e raggiungo i miei compagni di corso sul terrazzino della biblioteca di Studi Economici. Non so per quale motivo, quando sostenevo l’ultimo esame di febbraio, usciva sempre una giornata luminosa. Accendevo una sigaretta liberatoria, mi slacciavo il cappotto e si diradavano le ombre lunghe delle notti passate sui libri.
«Vai già a casa?» si lamentava qualcuno. «Hanno aperto una nuova birreria dietro l’università. Vieni a festeggiare la fine degli esami.»
Io non mi lasciavo coinvolgere troppo dai miei compagni o dalle attività universitarie. Non ero iscritto a un movimento studentesco, non collaboravo alla rivista dei giovani economisti e non giocavo nella squadra di calcio della mia facoltà. Dopo le lezioni e lo studio in biblioteca, tornavo a casa.
«Ma si può sapere che cosa c’è di così interessante a Rio Guado?»
A una certa ora gli autobus passavano con meno frequenza. Ma la verità era che desideravo laurearmi in fretta e la mia cittadina rappresentava un rifugio sicuro dalle distrazioni. Non mi importava di essere scambiato per un provinciale, che si sente sperduto nella metropoli.
«Ti costringeremo a fermarti con la forza. E ti metteremo sotto torchio. Non dici mai niente di te.» Proponevano di offrirmi un giro di bevute e ospitalità. Tornando indietro nel tempo, mi sarei lasciato convincere senza accampare scuse.
Non avevo fazzoletti in tasca per asciugarmi il sudore dietro alla nuca. Mi ero infilato in una traversa e camminavo con passo sostenuto. Il bar dei cinesi godeva di una buona posizione e nei giorni di mercato era alla mercé di avventori occasionali e dei bancarellari che dovevano usare il bagno. La Bolgia invece non aveva brioche. Optai per una caffetteria minuscola, di quelle che hanno due tavolini di rappresentanza e il bancone è preso d’assalto.
L’odore del pollo arrosto aveva stuzzicato il mio appetito. Presi un cappuccino con il cacao sopra e una brioche vuota per evitare di impiastricciarmi le mani di marmellata. La radio accompagnò la notizia delle dimissioni del presidente egiziano Mubarak con il nuovo singolo di Lady Gaga. «Questa era Born this way. E speriamo che anche i nostri amici egiziani siano sulla giusta strada,» disse lo speaker uomo. «Non solo loro. Speriamo anche noi italiani!» aggiunse la speaker donna.
Mentre rovesciavo le monete dal portafoglio, sentii una mano picchiettare sulla mia spalla.
«Gabo!»
Mi voltai. Lo riconobbi a stento in giacca e cravatta. Era Lucio, ma lo chiamavamo tutti Sid Vicious, anche se fisicamente era all’opposto del cantante dei Sex Pistols. Calvo e con un folta barba nera. Girava nella mia compagnia, ma di solito aveva un abbigliamento più informale. Non si faceva problemi a presentarsi in tuta.
«Ma che fine hai fatto? Non ti fai più vedere.» Le sue parole non avevano l’aria di un rimprovero. «Confessa. Ti sei trovato la ragazza?»
«Magari, Sid! È stato un periodo un po’ impegnativo.»
«Sul lavoro, tutto a posto?»
«Tutto a posto,» ripetei.
«Ascolta,» disse. «Sabato pensavamo di andare al Diner. C’è un concerto. Fanno cover. Punk, rock, roba del genere. Prenoto anche per te?»
«Dopocena, intendi?»
«Sì. Ma volendo, possiamo mangiare qualcosa lì. Gli hamburger sono ottimi. Li hai ma provati? Oppure una grigliata di carne se ti va.»
«Ti faccio sapere stasera,» presi tempo. «Però preferirei bere e basta.»
«Perfetto. Avverto gli altri che ci sei.»
«Aspetta,» lo bloccai. «Stasera ti mando un messaggio di conferma.»
«Saranno tutti contenti di vederti.»
Sid Vicious doveva ritenere il mio messaggio di conferma una pura formalità. Io però non ero del suo stesso avviso.

2

La direttrice agita una scatola. Dopo dei tentativi a vuoto, si sparpagliano delle caramelle minuscole sopra la sua mano. Qualcuna cade sul pavimento della sala riunioni.
«Sei qui solo da tre giorni…»
La direttrice mostra il palmo a Luca per condividerle con lui.
Luca ne prende una per cortesia. Le caramelle alla menta hanno un sapore forte, ma le preferisce a quelle alla liquirizia di suo padre.
«Ti ha fatto qualcosa Frosio?»
La direttrice lo invita a prenderne un’altra. Si spazientisce a riporle una alla volta dentro la scatola.
«Quello lì deve darsi una regolata. Non può fare sempre il cazzo che vuole.»
Luca si infila una caramella in bocca e nasconde le altre nel pugno. Ripensa all’ospedale. Non è mai stato bravo a fingere di ingoiare le medicine. Ma questo giochetto gli riesce.
«Siamo in contatto con il liceo di Rio Guado. Abbiamo avanzato la proposta di inserirti in una classe come uditore. Non dovrebbero esserci problemi. Almeno non stai tutto il giorno in comunità, mentre gli altri vanno a scuola.»  
Il sovradosaggio di mentolo la fa inspirare con la bocca. 
«Ci credo che poi ti annoi.»
Non avevo sbagliato indirizzo. Abito a Rio Guado da quando sono nato e conosco a memoria i nomi delle vie, almeno quanto i re di Roma o le tabelline. Mi era però difficile credere di avere di fronte una comunità e non la casa di un privato cittadino. Anche se di certo non passava inosservata.
La struttura era a tutti gli effetti una villa indipendente. Rientrava nell’itinerario delle mie passeggiate serali con Flora. Dovevo per forza aver mosso un rilievo su come era stata progettata, a meno che non vedessi l’ora di rincasare il prima possibile. Sembrava un cubo a cui erano state appiccicate di prepotenza due colonne in stile dorico. Flora avrebbe riso di una battuta del genere, se non altro per risollevare la conversazione. A volte avevamo così poco da dire che sentivamo solo i nostri passi sull’asfalto.
Una tenda bluastra separava le colonne. Sopra questa specie di baldacchino, si stagliavano due balconi di pietra con pilastri dalle forme sinuose. Greche ornamentali decoravano le finestre. Per il resto, la villa era quasi minimale. Bastava eliminare dal campo visivo le colonne e si riconosceva la villetta di campagna di una coppia di pensionati.
Dalle nostre parti, le case degli anziani sfidano la tenacia dei postini. Sono del tutto sprovviste di citofono e di cassetta delle lettere. Ma il cancello non rimane mai chiuso a chiave. Per entrare bisogna abbassare la maniglia, attraversare il giardino e guardarsi attorno, nel caso penzolasse la cordicella di una campana a muro. Alla peggio si bussa al portone d’ingresso. La comunità era dello stesso avviso. Non so se si può definire “citofono” una scatola con un buco circolare, un tempo destinato al pulsante. Nessuno si era posto il problema di aggiustarlo e di inserire un’etichetta con la scritta Comunità o uno di quei nomi da condominio e case di riposo come Residenza Tulipani.
Nel momento in cui mi decisi ad aprire il cancelletto, sbucò una ragazza da dietro la tenda bluastra. Strusciò la schiena contro una colonna per raggiungere i gradini. Sorrideva. Mi sfuggii il senso di quella contorsione, ma ne apprezzai l’eleganza. Forse temeva di rimanere impigliata nella tenda.
«Non è il posto che sembra, vero?»
Mi domandai per un attimo se appartenesse al gruppo operatori o agli utenti. Ma si rivelò un dubbio infondato. A quell’ora gli adolescenti trascorrono l’intervallo in fila ai distributori di cibo e bevande o in cortile a fumare una sigaretta. E vale anche per chi alloggia in una comunità. Nessuno di loro esce in tailleur ad accogliere il nuovo arrivato del servizio civile.
«Già,» tornai con lo sguardo alla struttura, ma lo distolsi subito. L’operatrice aveva inclinato la testa verso di me. Mi scrutava con l’espressione semiseria dell’insegnante che becca uno studente impreparato ad arrampicarsi sugli specchi.
«Ora che mi ci fai pensare…» completò la mia risposta e rise. «Confessa, lo stavi per dire! Eppure avevi un’aria così spaesata. Ti ho visto dalla finestra.»
Mi aveva spiazzato e risi a mia volta. I suoi modi confidenziali ebbero il merito di aggirare quell’anticamera di formalità e ingessature di quando si fanno le presentazioni. Sospettai però che le fossi familiare in una qualche misura. La nostra differenza di età non ci avrebbe permesso di condividere gli stessi compagni di giochi, ma avremmo potuto frequentare gli stessi ambienti. Provai a figurarmela bambina, come se avessi dei ricordi con lei e risalissero all’infanzia. Una bambina con le guance tonde. Guance che si alzavano e si arrotondavano ancora di più se rideva.
«È la prima volta che visito una comunità,» ammisi. «Per quanto ne so, potrebbero essere indistinguibili da fatiscenti ville di gusto neoclassico. Ma a essere sinceri… Sì, me la immaginavo diversa.»
«L’estate scorsa volevano soggiornare da noi degli escursionisti. Non so che guida turistica si erano portati, ma ci segnalavano come ostello della gioventù.»
«Be’, ne ha tutta l’aria.»
«Dici che avrebbero dovuto insistere di più?» si avvicinò a me e allungo una mano. «Comunque, piacere, io sono Angela. Un giorno potrò dire di svolgere lo stesso lavoro di Anna Freud e Melania Klein. Ma al momento sono una tirocinante in attesa di sostenere l’esame di abilitazione in psicologia.»
«Gabriele, piacere.» Sorvolai sui miei illustri predecessori commercialisti.
«Seguimi che ti faccio da guida e ti presento chi non è andato a scuola.» Scostò la tenda e mi fece passare, poi si riallineò a me. «Purtroppo la direttrice non è potuta venire. Ha un impegno fuori sede. È un peccato. Ci teneva a conoscerti.»
Mantenni la concentrazione sulle parole di Angela. Non volevo aggirami per la casa come su un altro pianeta. A quanto pare, avevo già dato spettacolo all’esterno. Resistetti all’impulso di esaminare un attestato di frequenza incorniciato. Non è il posto che sembra, vero? Non male come saluto di benvenuto.
Gli escursionisti capitati qui per caso non si sarebbero mai accorti di soggiornare in una struttura sanitaria. Avrebbero messo in frigorifero una cassa di birra insieme a un post-it con scritto i propri nomi. Magari avrebbero incluso una frase amichevole: Prendine pure una, ma non farci rimanere senza! Il divano del salone era l’ideale per rilassarsi, stappando una bottiglia dietro l’altra.
Davanti alla porta di una camera, la donna delle pulizie si era fermata a parlare con un utente.
«Così ti hanno tagliato la lingua,» disse la donna.
«Eh… Eh… Lingua no. Non tagliata.» Il ragazzo chinò la testa e fece dei giri su sé stesso. Se fossero stati più ampi, avrei pensato a un’imitazione di zio Paperone in preda al tormento, che camminando scava un solco circolare sul pavimento del deposito.
«Non ho capito, mi vuoi far girare la testa?» Si appoggiò allo spazzolone che portava con sé.
Angela si diresse verso di loro e io le andai dietro.
«Berto! Guarda chi ti ho portato. È l’educatore di Luca, perché non lo saluti?»
Il ragazzo mi guardò di sbieco e continuò a scavare il suo solco. Ora digrignava i denti.
«Se mi fai arrabbiare non leggiamo più insieme le vignette della Settimana Enigmistica,» poi si rivolse verso di me. «Mio marito fa i cruciverba e io leggo le barzellette con lui, anche se oggi ha la luna storta. È vero o no, Berto? Ce ne sono alcune che ci fanno morire dal ridere. Com’era quella che abbiamo letto ieri?»
«Boh,» rispose.
«Come boh! Scommetto che te la ricordi,» gli grattò la pancia per stuzzicarlo, ma lui le allontanò il braccio. «C’erano due dinosauri che fumavano e uno diceva all’altro: “Beh, che male può farci?”. A me fanno impazzire queste freddure.»
«Luisa tu hai capito cos’ha Berto?» chiese Angela.
«Oggi non ha voglia di parlare con nessuno,» rispose la donna. Si infilò le mani nelle tasche del camice da lavoro e tirò fuori un mazzo di chiavi. «Si è svegliato con la luna storta. Ha fatto un disordine in camera sua. Non so che gli ha preso.»
Berto approfittò delle nostre chiacchiere per rifugiarsi in camera sua.
«Hai controllato che i suoi cereali non siano finiti?»
«Ce ne sono ancora tre scatole in dispensa.»
«Ma sono quelli che piacciono a lui?»
«Sono i cereali che mangia di solito. È impossibile confonderli. Hanno un orso disegnato sopra.»
Esistevano ancora quei cereali a forma di barchetta. Erano anni che li avevo banditi dalla mia colazione. Nello spot di fine anni Novanta, un orso in salopette prova a svegliare un bambino a cannonate, senza ottenere risultati. Gli si accende allora una lampadina. Sgranocchia i suoi cereali preferiti e il bambino si sveglia di colpo. Gli partono delle molle dagli occhi ai cui estremi pendono le scatole dei cereali dell’orso. La lingua gli si srotola dalla bocca. Finché il bambino corre in cucina per divorare la sua scodella di cereali. La parte croccante di una colazione completa. Finiva così.
«Allora avrà sentito un antifurto suonare.»
«Non te lo so dire. Quando sono arrivata, non suonava nulla.»
Angela mi afferrò un braccio e rimasi avvolto al suo profumo di miele.
«Ultimamente i ragazzi sono un po’ nervosi.»
«Se sono arrivato in un momentaccio, tolgo il disturbo.»
Per incoraggiarmi mi dissi che se ero riuscito a parlare al telefono con i clienti dello studio di un commercialista, avrei imparato anche a rapportarmi con quei ragazzi.
«Fai come vuoi. Ma ti avverto: non troverai altri ostelli da queste parti,» incalzò Angela.
«Gli hai già raccontato la storia degli escursionisti?» Intervenne anche Luisa. «Meglio non spaventarlo troppo al suo primo giorno di lavoro. È vero, però, che i ragazzi sono nervosi. Stamattina Jenny ha avuto una crisi di pianto. Non voleva andare a scuola.»
«Me lo ha detto Marzia. A proposito, dov’è?»
«E’ andata a fare la spesa.»
«Non c’è proprio nessuno, nemmeno tra noi operatori.»
A dire la verità, ero rinfrancato all’idea di non conoscere tutto insieme il gruppo operatori.
«Tra poco inizia il turno di Maurizio.»
«Allora poi te lo presenterò,» mi disse.
«Ti presenteremmo anche Lello.» Luisa spalancò la porta di una camera. «Ma come puoi notare è quasi mezzogiorno ed è ancora a letto. Dormire è la sua attività preferita.»
«Almeno se ne sta tranquillo.»
«Questo è invece l’ufficio del direttore,» mi avvisò. Spinse la porta con lo spazzolone, come se non volesse contaminarsi. «Ci dorme un bel personaggio. Si crede il boss. Quando ieri sono venuta a rifargli il letto, gli ho scovato una bottiglia di vodka nell’armadio.»
Fui sorpreso dalla quantità di fumetti accatastata ovunque nella stanza. Mi lancia sul numero di Alan Ford che parodiava Il conte di Montecristo.  L’avrei letta dall’inizio alla fine, se la donna delle pulizie non mi avesse richiamato all’ordine. «Frosio è molto geloso dei suoi fumetti.» Attenuò il rimprovero con un sorriso. Io guardai l’albo come se non mi capacitassi di averlo tra le mani e lo mollai su un ripiano. Mi ero ripreso da un incantesimo.
Luisa mi infilò in tasca la chiavetta delle macchinette: «Era di un ex operatore. Ma io non ti ho dato niente, intesi?»
«Cosa sono questi favoritismi?» Angela sgranò gli occhi.
«Su non essere gelosa. Bisogna incoraggiarlo.»
Angela incrociò le braccia e finse di essere offesa: «Vorrà dire che mi offrirai il caffè tutte le mattine.»
Stavo per risponderle che non desideravo di meglio, quando una presenza in soggiorno ci distrasse dal nostro teatrino. All’inizio credetti di assistere a una sorta di danza della pioggia. Un ragazzo si dava due colpi in fronte con il palmo della mano. Lo spostava all’altezza dell’orecchio e infine lo avvicinava ai genitali. Ripeté la sequenza di gesti come sopraffatto dalle convulsioni.
«Calmati, Steve. Hai preso la terapia stamattina?» gli chiese Angela.
«Non ti preoccupare Angie. Ancora un paio di colpetti e ho finito» disse e aumentò la velocità dei movimenti.
Dalla stanza di Lello provenivano degli sghignazzi. Non vedeva Steve, ma sentiva i suoi piedi sbattere sul pavimento. Avrà assistito a numerose repliche di quello spettacolo, ma doveva trovarlo sempre divertente.
«Non farci caso, Gabriele,» mi disse. «È la montagna che lo chiama.»
«La montagna?» pensai tra me e me.
Steve mi strinse la mano. Si sfiorò la tempia e si ricompose subito. Si sforzò come meglio poteva di tenere a bada il tic.
«Piacere, Steve. Tu sei l’educatore di Luca?»
«Proprio così, mi chiamo Gabriele.»
«Se lo cerchi, lo trovi in camera sua.»
«Ma come mai sei già a casa?» Luisa interruppe le presentazioni.
«Due ore buche. Siamo usciti prima.»
«Vai da lui, prima che ti dia per disperso,» disse Angela. «Mi sa che ti ho fatto perdere tempo,» e bussò al posto mio.

La stanza era asettica. Luca non aveva ricreato un ambiente che lasciasse presagire qualche tratto della sua personalità. Sembrava davvero il posto letto di un ostello della gioventù. L’unico elemento decorativo era una cornice raffigurante il castello di Rio Guado. Aveva una macchia di umidità su un angolo, ma non rovinava la stampa, anzi le conferiva un aspetto di antichità, di cimelio ritrovato in soffitta.
Luca si stava mangiucchiando il cappuccio di una penna a sfera. Mentre mi aspettava, aveva scarabocchiato su dei cartoncini, come quando si prende un appunto al telefono. Scoprii che erano dei biglietti da visita. Sotto l’inchiostro rosso, riconobbi le lettere stampate del suo nome. L’indirizzo e il numero di cellulare erano scritti con un font di dimensioni più piccole ed erano stati cancellati meglio.
Luca mi salutò, ma non aggiunse altro. Io non sapevo dove mettermi. Per non stare in piedi, mi sedetti sul fianco del letto. Quando mi accomodai, Luca si girò con la sedia nella mia direzione.
Non era un momento che richiedesse particolare solennità, ma nessuno dei due parlava. Temevo di dire qualche sciocchezza o peggio ancora di ferirlo. Se fossi un dipendente di una struttura ricettiva e lui un ospite insoddisfatto del servizio, avrei trattato sul prezzo o mi sarei prodigato a trovargli una sistemazione migliore. Di certo, nei posti alla buona, come gli ostelli della gioventù, non ci si aspetta queste premure e non si hanno troppe pretese. L’unico consiglio utile per i più esigenti è quello di prenotare un albergo. Ma io dovevo fare in modo che lui rimanesse in comunità.
«Se pasticci i tuoi biglietti da visita, come farai a distribuirli a chi conosci?» ruppi il silenzio.
«Li pasticcio per questo,» rispose.
«Non ti piacciono più?»
«Non mi servono un granché. Me li ha regalati mio padre. Li ha fatti per tutta la famiglia.»
«Ce l’hai con tuo padre?» Mi pentii subito di averlo chiesto. Nel mio lavoro ero abituato a porre domande senza troppi giri di parole. Ma la situazione finanziaria di un cliente non era paragonabile alla situazione esistenziale di un utente di comunità.
«No. Non più di tanto.» Raccolse i biglietti e li dispose sul tavolo in file da tre.  Non mi avrebbe stupito se avesse voluto giocare a una specie di improbabile solitario.
«Diego mi ha chiesto il numero di telefono e io gli ho dato un biglietto da visita. Si è messo a ridere e mi ha mandato a fare in culo.»
Per non sostenere il mio sguardo, si allacciava e si slacciava di continuo il cinturino di gomma del suo orologio. Controllò l’ora, ma di sicuro non avrebbe saputo dirmela.
«Non è stato molto carino da parte sua.» Provai a ipotizzare che cosa avesse generato lo sdegno di Frosio. L’aveva scambiato per un modo di tirarsela?
«Ha ragione. Sono ridicoli. E la cosa più ridicola e che li abbia io. Ho sedici anni, non sono un vecchio.»
«Se fossi un libero professionista, potrei averli anch’io nel portafoglio. E secondo te sono vecchio?» E aggiunsi, sempre in tono scherzoso: «Non dirmi che vuoi tornartene a casa, perché il tuo amico non apprezza i biglietti da visita.» Fui di nuovo inopportuno.
«Non c’entra nulla,» disse senza cogliere la battuta. E fu meglio così.
Non mi restava che chiedergli quale fosse il vero motivo per cui desiderasse abbandonare la comunità. Lui me lo avrebbe detto e io gli avrei spiegato che Adamo ed Eva rimpiansero per il resto dei loro giorni la fuoriuscita dal Paradiso Terreste. E a quel punto si sarebbe convinto a chiudersi in camera sua a scarabocchiare biglietti da visita per un annetto o giù di lì. Io avrei portato a termine con successo il mio compito. Onore e gloria a me e tanti saluti.
«Ma tu perché lavori in comunità?» domandò a bruciapelo. Intendeva cambiare discorso?
«È capitato,» mi uscii. «I miei studi non hanno mai interessato l’educazione o la medicina. In realtà, non so nemmeno come si diventi operatore. Figurati, ho studiato economia. Mi sono messo a lavorare. Ovviamente, non nelle comunità.»
«E cosa facevi?»
Alzò la testa e mi guardò dritto negli occhi. Devo ammettere che mi causò un leggero imbarazzo.
«Ero impiegato in una finanziaria. Poi ho perso il lavoro. Dopo un anno che non combinavo nulla, i miei mi hanno suggerito di fare domanda per il servizio civile.»
Non sapevo nemmeno io perché gli raccontavo i miei fatti personali. Un conto è conquistare la fiducia del proprio assistito, ma spiattellargli i propri fallimenti era davvero poco professionale. Avrei contrariato perfino uno del servizio civile alla sua prima esperienza nel mondo del lavoro.
«Per questo sei venuto qui?»
«Sì. Perciò, mi spiace se non sono la figura più adatta ad aiutarti, soprattutto adesso che la permanenza qui ti va un po’ stretta.»
Rimanemmo in silenzio. Poi aggiunse: «Io credo che preferirei lavorare in una comunità.»
«Senti, ma ce l’hai un biglietto da visita pulito?»
«Perché?»
«Questo non è pasticciato sul retro,» ne indicai uno sparpagliato sulla scrivania. «Ti segno il mio numero di telefono. Se hai voglia di parlare con qualcuno.»
Mi aspettai la stessa risposta che gli aveva dato Frosio alla vista dei suoi bigliettini. E invece rispose: «Okay.»
«La prossima volta che ci vediamo possiamo fare quattro passi, andare al cinema, fare merenda insieme. Non dobbiamo restare in camera tua per forza. Scrivimi.»
Fissò il bigliettino con il mio numero.
«Questo è un cinque?»
«È un cinque.»
Aprì il cassetto della scrivania e vi ripose il biglietto con il mio numero.
«Con chi vai più d’accordo?» gli chiesi. Prima di tornarmene a casa, pretendevo che si sbottonasse anche lui con qualche confidenza.
«Parli dei ragazzi o degli operatori?»
«Ragazzi. Ma dimmi anche degli operatori.»
«Un po’ con tutti. Forse tra i ragazzi…» fece una pausa. «Forse Diego Frosio, anche se mi ha riso in faccia. Oppure…» Si fermò di nuovo, ma stavolta non per riflettere. Avevamo udito il rumore di una sedia rovesciata a terra e io sobbalzai dal letto.
«Lello, ma sei impazzito?» urlò un’operatrice.
«Vaffanculo. Sono incazzato.»
«Non ti passerà il nervoso lanciando sedie.»
«L’assistente sociale è una troia. Io l’ammazzo. Non mi fa vedere mia madre nemmeno questo fine settimana.»
Uscii dalla camera di Luca per rendermi utile. Anche un altro operatore ebbe la mia stessa idea.
«Bisogna mettere le catene ai letti. Io continuo a dirlo. Prima o poi mi ascolteranno,» si lamentò l’uomo. «Piantala immediatamente o tua madre non la vedi per tutto il mese.»
«Vaffanculo pure a te,» rispose e si chiuse in camera sua sbattendo la porta.
Rimasi immobile in mezzo alla sala e nessuno fece caso a me. L’uomo allargò le braccia e comunicò ad Angela e a un’altra operatrice tutto il suo disappunto: «Qui bisogna fare qualcosa. Appena torna la nostra direttrice le parlo vis a vis. Non si può lavorare in queste condizioni. Quando facevo l’infermiere in ospedale, soggetti come lui li legavamo al letto finché non si trasformavano in agnellini.»
Rimasi in disparte, mentre Angela confabulava con i colleghi. Luca non poteva scegliere momento migliore per aprire la porta di camera sua e venirmi incontro.
«Non ho scarabocchiato troppo su questo biglietto. Si legge ancora il mio numero,» disse.
«Ti ringrazio.» Era leggibile persino il suo indirizzo. Le lettere contornate di rosso lo risaltavano.
In basso a destra, Luca aveva abbozzato un disegnino, diverso dai soliti scarabocchi informi e vuoti. Sembrava una montagna.

3.

Luca è al supermercato con Marzia. Avrebbe preferito rimanere in camera sua a leggere i fumetti di Frosio. Ma è sempre meglio che incollare ritagli di giornale su una latta. Le operatrici – bisogna dargliene atto – si ingegnano a trovargli qualcosa da fare tutte le mattine. La donna delle pulizie lo ha iniziato al découpage e non ha risparmiato lodi per le sue decorazioni senza troppe pieghe.
Luca non vede l’ora di riprendere in mano la storia di Primerose. Una casalinga che fantastica sui dépliant delle agenzie di viaggio, mentre aspetta il ritorno di un marito violento. Quelle quattro o cinque pagine al massimo l’hanno subito catturato.
Ora però è occupato a confrontare i prezzi delle scatolette di tonno. I prodotti sugli scaffali non sono gli stessi che espongono i supermercati delle sue zone. La nostalgia di casa si impossessa di lui in qualunque forma.
«Sei di poche parole, non è vero?» osserva Marzia. Non è la prima ad accorgersene. Ares lo stuzzica con battute del tipo: «Almeno non ti si secca la lingua,» oppure «Mi hai rintronato a furia di parlare.»
Soltanto gli operatori danno così importanza ai suoi silenzi. I ragazzi non ci fanno nemmeno caso.

Attraversai la piazza per rincasare. Ormai le bancarelle erano già state smontate. Mi tenni a distanza dai rulli della spazzatrice e dalla frutta spappolata a terra. Ma non riuscii a fare lo stesso con l’odore del pesce, che pervadeva tutta l’area delimitata dai parcheggi a strisce blu.
Al bar dei cinesi, era rimasta soltanto una cameriera in piedi nel dehors. Si godeva il lavaggio delle strade, mentre aspettava che si asciugasse il pavimento. Il proprietario non si curò di lasciare le impronte sul bagnato. Era uscito con la sigaretta accesa e si era messo a fumare appoggiato al cancelletto. Il suo sguardo non era concentrato sulla piazza, come quello della donna, ma sullo schermo del telefonino.
Il netturbino agitò un bancale di legno per far capire al collega a bordo della spazzatrice di invertire la direzione di marcia. Anche se non interferivo con quelle operazioni, smisi di sentirmi d’intralcio solo una volta girato l’angolo.
Il lungo rettilineo di corso Armonia non necessitava dell’intervento della nettezza urbana. Forse perché ero libero di camminare tanto sui sampietrini quanto sull’asfalto, che mi venne in mente Angela. Eppure avevi un’aria così spaesata. Ben due volte era arrivata in mio soccorso e con un ottimo tempismo. In entrambe, me ne stavo fermo impalato a guardarmi intorno. O verso la struttura esterna della comunità. O verso il capannello degli operatori, che confabulavano tra di loro.
I miei nuovi colleghi avevano molti sottintesi, che mi rendevano estraneo al gruppo di lavoro. Parlavano di catene ai letti. Menzionavano ragazzi a cui non sapevo associare i volti. Di tutti i discorsi che avevo orecchiato, intuivo giusto il senso generale, al pari di una lingua straniera appresa a scuola.
Mi dissi che era pur sempre il mio primo giorno di servizio e che non tutti erano stati avvisati del mio arrivo. Senza contare che il comportamento di Lello aveva allarmato gli operatori. Chissà cosa aveva combinato per non poter vedere sua madre nel fine settimana.
Ad ogni modo, appena Angela mi aveva visto da solo in mezzo al salone, si era staccata dal gruppo operatori per raggiungermi e scusarsi del trambusto. Mi aveva ripetuto che i ragazzi erano un po’ nervosi. E mi propose di non presentarmi il giorno dopo, ma di tornare lunedì con la chiavetta del caffè.
Allungai la strada perché avevo voglia di camminare e di esaurire il mio resoconto mentale sulla giornata in comunità. Da Angela e dagli operatori, passai con la mente al mio assistito. Io e Luca saremmo andati d’accordo. Questa era la mia sensazione. Non aveva impiegato molto tempo ad abbassare le difese. La sua psichiatra non si era sbagliata a sostenere che avesse bisogno di una figura non troppo più grande di lui con cui sfogarsi. Frugai nelle tasche per assicurarmi di avere il suo biglietto da visita.
Ero salito sulla gradinata del municipio, quando una Fiat Stilo mi passò accanto e il conducente mi salutò con il braccio fuori dal finestrino.

Non so se Berto e la donna delle pulizie giocassero a Trova le differenze. Di solito chi non è capace di risolvere le parole crociate e i rebus si lancia su quei giochi, dopo aver letto tutte le barzellette.
Ma le mie nuove conoscenze, così come un qualunque osservatore, non avrebbero notato cambiamenti sostanziali tra la casa della mia dirimpettaia e quella di mia nonna. La mia si era impoverita di qualche oggetto religioso, ma ne aveva ancora moltissimi (ormai mi ero rassegnato a condividere la camera da letto con un putto che suona la cetra). Per non parlare delle piastrelle a forma di nido d’ape o delle stoviglie a tema floreale. Se non erano identiche, rispondevano allo stesso gusto nell’arredo.
A me piaceva credere che nell’uno e nell’altro appartamento si aggirasse lo stesso spirito della casa. Da amante dell’ordine e della pulizia quale sono, immaginavo di non aver scatenato troppo la sua ira. E pur non essendo scaramantico, confidavo nella sua protezione.
«Allora come è andata?» mi chiese la mia dirimpettaia. Si era seduta davanti a me, non tanto per fare conversazione, anche se non le mancavano gli argomenti, ma per guardarmi mangiare. Aveva una vera e propria passione per come mordevo il cibo e me lo gustavo. Ormai non mi disturbava più quel suo vizio.
«Che dire… In mezzo a chi fa strani balletti in preda al richiamo della montagna, chi lancia sedie per la casa e chi ride a pessime battute, mi sento meno disagiato di quel che pensavo.»
«Lo so che non è il tuo lavoro,» disse. «Ma in attesa di meglio, ti passa la giornata. Mettila così. Stai in mezzo agli altri, fai qualcosa di utile per i problemi di questi ragazzi. E soprattutto non ti chiudi in casa davanti al computer.»
Dalla mia dirimpettaia, la televisione restava sempre accesa, anche in presenza di ospiti. Io ascoltavo i suoi sforzi per tirarmi su il morale e il pubblico in studio rideva alla battuta di un comico su come Berlusconi avrebbe risolto la situazione politica in Egitto: Dopo aver salvato la nipote dall’arresto, ora gli tocca pure salvare lo zio.
«Ho conosciuto Luca, il ragazzo di cui mi dovrò occupare.» Mi passai la lingua sullo spazio del dente, dove si era conficcato un ciuffo di carne. «È probabile che spesso ci invertiremo i ruoli. Magari per convincerlo a non scappare dalla comunità, lo pagano perché sia lui a occuparsi di me. Penso abbia già tentato di psicanalizzarmi o qualcosa del genere.»
«Eppure, caro mio, nonostante il tuo sarcasmo, secondo me ti sei trovato bene. Non lo vuoi ammettere, ma è così. Ho ragione?»
Non raccolsi la provocazione. Avevamo parlato a sufficienza del mio lavoro. «E a lei, come è andata la giornata?»
«Nemmeno io mi posso lamentare.» In televisione davano la pubblicità. La mia dirimpettaia prese il telecomando e abbassò il volume. «Oggi avevo letteratura francese in università.»
Il pollo mi andò di traverso. Trangugiai un bicchiere d’acqua e risi a colpi di tosse. In realtà è piuttosto frequente vedere servizi al telegiornale dedicati ad anziani che realizzano il sogno di laurearsi. Però detto da lei suonava incredibile, anche se si riferiva all’Università della Terza Età di Rio Guado.
La mia dirimpettaia accolse la mia risata come liberatoria, dopo diverse settimane di tensione. Non se ne risentì, al contrario, era compiaciuta di avermi fatto divertire. L’unica sua preoccupazione era che non soffocassi.
«Ti ringrazio per ricordarmi che ho la quarta elementare,» disse e mi versò dell’ac-qua. Aveva iniziato a settembre a frequentare i corsi e non mi ero ancora abituato a sentirla parlare dell’arte barocca o dello scambio cerimoniale Kula tra le popolazioni delle isole Trobriand.
«E cosa avete studiato?» mi ricomposi.
«Abbiamo letto in classe un racconto di Maupassant. E quello che è capitato a un tale Pierre, non fatico a immaginare che possa capitare un giorno a te.»
«A me?» Mi asciugai la bocca e le mani unte con il tovagliolo. Accettare il suo mezzo pollo del giovedì, significava, come contropartita, dover ascoltare i suoi voli pindarici. La scorsa settimana aveva paragonato il nostro rapporto a quello tra Jessica Fletcher e il nipote Grady. Aveva sviscerato tutti i punti in comune con i due personaggi della Signora in giallo. Ma a mio parere, io e Grady condividevamo la stessa professione e null’altro. E avevo seri dubbi che ci fossero delle somiglianze tra lei e la scrittrice di Cabot Cove.
«Mi correggo, sei proprio la persona giusta per ritrovarti in una situazione del genere. Non saprei se augurartelo o meno.»
Mi chiesi se non fosse un suo modo di vendicarsi.
«Non ci sto capendo niente.»
Di Maupassant avevo letto solo I due amici in una antologia scolastiche delle scuole medie.
«Ho avuto un’intuizione chiamiamola così. Questo Pierre racconta agli amici le circostanze in cui ha conosciuto la moglie. Il titolo per l’appunto è Mia moglie. Una donna graziosa, amabile e perfetta. Pierre è davvero l’ultimo che può lamentarsi della sua vita coniugale. Ma la cosa interessante è che non si è sposato per sua volontà. È stato piuttosto il dio degli ubriachi a scegliere per lui.»
«Brindiamo al dio degli ubriachi.»
Io sbuffavo, ma in fondo era in grado di intrattenermi. Mia nonna perdeva in fretta la pazienza ad ascoltare i suoi discorsi inconcludenti (senza piede né gamba, diceva).
«A proposito, anche noi abbiamo un brindisi da fare! Al tuo nuovo lavoro. Vado a prendere l’idromele.»
Si alzò dalla sedia e raggiunse il frigorifero.
«Ma mi spieghi meglio cosa è successo a… Pierre, ha detto?»
Volevo sapere dove sarebbe andata a parare, prima che iniziassero le trasmissione della serata.
«Il buon Pierre non aveva nessuna intenzione di sposarsi. Ma quando partecipa alle nozze del cugino, alza un po’ troppo il gomito. Terminati i festeggiamenti, si trascina barcollando in camera sua, ma sbaglia porta. Si mette a dormire nel letto accanto a quello della figlia di un colonnello. Il mattino dopo viene scoperto e il padre della ragazza vuole bruciargli le cervella.»
«Non è per niente una situazione desiderabile.»
Spostai il piatto e le posate nel lavello.
«Lui è in buona fede, si è trattato di un incidente, colpa dell’alcol, ma non viene creduto.»
«E non sa se augurarmelo o meno? Solo perché ho riso sulla sua giornata in università?» le domandai. Più realisticamente aveva trovato il pretesto, sebbene forzato, per raccontarmi una storia. Se avesse letto Canto di Natale, si sarebbe inventata un altro parallelismo.
«Figurati se mi importa.» disse. «E per uscire dai pasticci, Pierre è costretto a prenderla in moglie.»
«E come finisce?»
«Che dopo tutto non lo rimpiange affatto.»
«Ah!» Che altro potevo dire?
«Non è quello che ti è capitato con il nuovo lavoro?» mi domandò.
«In effetti ho sbagliato porta anch’io, però non mi sono sbronzato. E la figlia del colonnello sarebbe la metafora della comunità? Quanto è contorto tutto ciò?»
«Devo pur passare il tempo,» mi fece notare. «Adesso però brindiamo.»
«Beviamo più che altro. E speriamo di dormire nel letto giusto.»
«Al tuo nuovo lavoro!»
«Alla sua carriera universitaria,» risposi. «Ma non c’era qualcosa di cui doveva parlarmi?»
«Oh! Me ne stavo dimenticando.»
«La letteratura francese rende distratti.»
Lasciammo Pierre al tavolo con gli amici.
«Il servizio civile non è molto remunerativo. Vero?»
La conversazione prese una piega diversa. Spense persino il televisore.
«Alla finanziaria mi pagavano quasi quattro volte di più.»
Già,» commentò. «Avrai dei risparmi da parte, ma credo che ti farebbero comodo un po’ più di soldi. O stai prendendo in considerazione l’idea di tornare dai tuoi?»
«Preferirei fare la fine di Pierre e sposare domani una sconosciuta.»
«Senti Pierre (è un nome che ti si addice), ho una proposta da farti.»
«Sentiamo,» dissi. Mi tremò la voce. Avrei forse rimpianto le sue divagazioni?
«Mio nipote è in cerca di una casa in affitto. Ha dovuto liberare l’appartamento dove viveva prima, perché serviva al proprietario. Ora lo ospita suo padre, ma ha bisogno di un’altra sistemazione temporanea. Sono arrivati al punti di mettersi le mani addosso. Se sei d’accordo, potrebbe dormire nella tua camera degli ospiti.»
«Non sarà un tipo manesco?»
«Niente affatto,» mi rassicurò. «È suo padre che ha perso la pazienza. Ma devo avvisarti che è una persona sgradevole. Confesso che non sono riuscita a prendere fino in fondo le parti di mio nipote. Te ne renderai conto da solo.»
«Con chi diavolo dovrò convivere?» sbottai.
«Non ti sto raccomandando Jack lo squartatore. È solamente antipatico, ma ti assicuro che vi incrocerete poco. Lui passa la maggior parte del tempo in camera sua. Oppure fa lunghi giri in bicicletta.»
Purtroppo aveva toccato una corda sensibile. Mi servivano soldi e non ero nelle condizioni per rifiutare.
«Mi faresti un gran piacere.»
Chissà se nella testa della mia dirimpettaia, le vicende di Pierre fungevano da preambolo necessario per spedirmi in casa suo nipote.
Ci accordammo sul prezzo e salii nel mio appartamento.

«Pronto, Sid… Ti sento a scatti.»
«Gabo? Ora, va meglio? Gabo? Ci sei?»
Sid Vicious non mi aveva concesso molto tempo per rifiutare il suo invito.
«Ora ti sento. Scusa se non ti ho ancora dato la conferma per sabato, ma si trasferisce da me il nipote di una mia vicina di casa e mi ha scombinato i piani,» mentii. Non avevo la minima idea di quando si sarebbe fatto vivo.
«Almeno arrotondi. Ti paga le spese, no?»
«Ma certo,» dissi. «Per sabato, ti dicevo…»
«La nostra bevuta è saltata. Ti chiamavo per questo.»
«Non si fa più?».
«Mi dispiace, Gabo. Non c’è nessuno in circolazione. Adriano e Carnevali vanno a un matrimonio di un loro amico. Lele è fuori con i colleghi. Non ho capito cosa abbia da fare Richy. A questo punto, io vado al cinema con Paola a vedere il documentario su Senna.»
«Fammi sapere se ne vale la pena,» finsi interesse. L’ultima volta che mi trascinarono al cinema fu per il Ritorno del re. Non avevo nemmeno recuperato il secondo film della trilogia del Signore degli anelli.
«Perché non te lo guardi? Al Multisala è in programma tutta la settimana. Tieniti libero sabato prossimo e ne parliamo. Sempre al Diner. Stavolta dovrebbero esserci tutti.»
Ero stato precipitoso ad accampare la scusa del coinquilino.
«Sid, hai notizie di Flora?» buttai lì. «Ripensavo alla nostra compagnia e mi sono ricordato che c’è stato un periodo in cui usciva con noi.»
«Intendi Flora e Chi-ti-deflora?»
«Eh?»
«Dai, Gabo. Era il soprannome che avevamo dato alla vostra accoppiata.»
«Molto divertente.»
«Ma c’è mai stato qualcosa tra di voi?»
Mi pentii di aver riesumato Flora al telefono con Sid.
«Me lo avresti detto, suppongo,» si rispose da solo. «Se non sai niente tu, figurati se ho notizie io. Amico, lasciatelo dire, è un po’ tardi per provarci.»
«Smettila di fare il deficiente. Era solamente una curiosità.»
Sid esigeva la massima serietà, quando si confidava con me o parlava dei fatti suoi. Ma non era disposto a ripagarmi con la stessa moneta.
«In effetti, non l’ho più vista in giro. Non era andata all’estero? In Irlanda, tipo. Londra? O magari in Australia. Aveva intenzione di imparare l’inglese e fare dei lavori stagionali.»
«Sei sicuro?»
«Mi sto confondendo, mi sa. Marta aveva frequentato un corso estivo in Irlanda e si era trasferita. Prima a Minneapolis e dopo in Australia. O era il contrario? Chi era andato a Londra invece?»
Mi ero infilato in un tunnel senza via d’uscita.
«No, Gabo, ti direi delle stronzate. Bisognerebbe sentire… Aveva delle amiche quella lì?»
Gli ingranaggi della sua memoria si erano azionati.
«Niente, Sid?» feci l’ultimo tentativo.
«Magari si è sposata. Vabbè, la smetto con le ipotesi campate per aria. Ma sono pronto a scommettere che non abita più qui.»

Non mi era mai capitato di riflettere troppo sulla mia vita. Potevo avere in testa progetti a medio termine, come studiare con impegno e trovare al più presto un buon lavoro. Da adolescente mi inquietava estraniarmi con pensieri fumosi, che dimostravano lo spessore intellettuale di certi miei amici (almeno questa era la loro pretesa). Chi voleva fare il giro del mondo o abbandonarlo una volta raggiunti i ventisette anni d’età. Chi rifiutava i valori piccolo borghesi e avrebbe vissuto da bohémien. Quando la cicala è stufa di cantare si mette a filosofeggiare sull’esistenza. Mi spiegavo così il senso di disagio provocatomi dall’argomento. Se era Sid Vicious ad affrontarlo, mi saliva anche un po’ d’ansia.
Un pomeriggio d’estate tiravamo a canestro nel campetto sotto casa sua. Volevo sapere da lui, che giocava nella Virtus Rio Guado, se eseguivo correttamente il terzo tempo. Invece di darmi qualche indicazione, mi aveva sottratto il pallone e si era seduto su una gradinata. Mi fece un discorso sconclusionato su quanto si sentiva vicino al modo di ragionare di uno scalpellino del medioevo. «Quell’uomo non sta solamente spaccando un blocco di pietra sotto il sole, ma sta partecipando alla costruzione di una cattedrale.»
Sid sognava di far parte del gruppo di lavoro preposto alla realizzazione di una grande opera. Mesi prima era partito al seguito della facoltà di ingegneria civile per assistere all’inaugurazione del viadotto di Millau. Mi raccontò il suo viaggio incalzato dalle mie domande, senza usare parole d’entusiasmo, se non per lo spezzatino di anguilla servito in albergo. Si limitò a ripetere la versione preimpostata che dava in famiglia. Dati tecnici sui materiali, l’altezza dei piloni e altre caratteristiche di eccezione. Non mi resi conto di quanto fosse rimasto scioccato da quell’esperienza. Ci aveva rimuginato per tutto l’anno accademico, finché i miei rimbalzi sul campo da basket ebbero su di lui l’effetto di un’epifania. Gli sarebbe bastato leggere il proprio nome sul progetto di un’infrastruttura destinata a rimanere nella storia, per essere sicuro di non aver sprecato la sua vita. In veste di tecnico generico o di un qualunque operaio. Dopo la laurea tentò più volte l’esame per entrare nell’ordine degli ingegneri, ma non superò mai le prove scritte.
Mentre Sid si rassegnava alla prospettiva di leggere il proprio nome sulle polizze della compagnia assicurativa dove lavorava, io pensavo alle mie di prospettive. Che cosa avrei combinato da qui a un tempo imprecisato?
C’erano momenti di sconforto nei quali passavo in rassegna amici, ex colleghi, gente con cui ero in contatto. Avevo l’impressione che tutti quanti fossero a conoscenza di una verità a me segreta. E per questa ragione non mi costruivo castelli in aria sulle biografie di Jim Morrison al liceo, non mi godevo una birra con gli amici all’università, non mi fermavo davanti alle vetrine delle agenzie del lavoro se avevo già un contratto. E per questa ragione ero finito in comunità tramite il servizio civile.
Tiravo mezzanotte, mezzanotte e mezza, l’una e oltre. Mi crogiolavo nell’inquietudine. Finché prevaleva la volontà di ribellarmi alla veglia dei miei fantasmi. Era necessario tracciare una linea di demarcazione. Io ora sto dall’altra parte. Non qui, e non insieme a voi. Uscivo allora dalle coperte per eseguire un piccolo gesto insignificante. Caricavo un vecchio orologio, mi lavavo i piedi o cambiavo la maglietta del pigiama. E tornavo ad appoggiare la testa sul cuscino. Io ora sto dall’altra parte.
Dormivo giusto qualche ora. Al mio risveglio, accendevo la televisione e guardavo i film della fascia notturna.
Non seguivo i sottotitoli. In quel genere di film, i dialoghi non costituivano per me un supporto fondamentale alla comprensione.
Quando girai sul terzo canale, uomini e donne bruciavano dentro la buca di una tavola ovale, ovvero la pupilla di un occhio gigantesco. A prima vista, parevano uomini e donne, ma erano bambolotti. O erano uomini e donne diventati bambolotti. Nella scena successiva, un gruppo di iniziati muniti di bastoni saliva su una montagna. Gli occhi mi si chiudevano, mentre ciascuno di loro baciava la mano di un contadino.
Un tonfo sulle scale mi ridestò. Non proveniva dal film, dove una musica rilassante attenuava il rumore prodotto dal mortaio usato da una vecchia. Mi affacciai alla porta con il cuore che mi batteva.
«Che succede?» dissi con un piede in anticamera.
«Ohi! Ohi!»
«Idiota! Non fare rumore,» sussurrò una donna.
Scesi di un piano e ripetei: Che succede?»
La proprietaria del gatto pezzato cercava di sollevare l’uomo a terra.
«Perdona il trambusto,» disse e strattonò l’uomo. «Ha appoggiato male il piede su uno scalino ed è inciampato. So che è molto tardi. Ha staccato cinque minuti fa dal lavoro. Scusaci ancora.»
«Tanto domani posso dormire.»
Allungai un braccio verso il tizio che era stato rimorchiato dalla mia vicina. Riconobbi il paziente del centro psichiatrico con i capelli ingellati e tinti di viola.
«Ti preparerò una torta e ti leggerò il futuro. Promesso!» disse la donna con le mani giunte.
L’uomo si aggrappò a me e ritornò alla posizione verticale.
«Se dovesse capitarmi qualcosa, chiama questo numero,» l’uomo dai capelli viola mi lasciò un foglietto. «Ci penserà lui a portare via il mio corpo.»
Era il secondo biglietto da visita che ricevevo nell’arco delle ultime ventiquattro ore.

4.

«Tu sei quello nuovo?»
Frosio è in comunità da cinque anni. Ne ha visti di ragazzi passare. Ma non è sua abitudine organizzare comitati di accoglienza. Ci tiene invece a mettere in chiaro le cose. È lui che comanda. Non avrà vita facile, chi alza la cresta.
Luca ha tutta l’aria di essere un tipo sveglio. Non come i ritardati domiciliati qua dentro. Con lui non servono tante raccomandazioni.
«Qui sono io il capo, se hai bisogno di qualcosa chiedi a me.»
Lo conduce in camera sua per mostragli la collezione di fumetti. Un ripiano della libreria si sta incurvando, ma regge comunque gli albi di Topolino, i numeri di Dylan Dog e Satanik. Ci sono intere collane che Luca conosce solo di nome. Pochi romanzi. La maggior parte è di Salgari.
«Anch’io sono un appassionato di fumetti,» gli dice Luca. «Hai mai letto John Doe?»
«Sicuro.» Frosio glielo dimostra. Sfila dalla libreria un volumetto intitolato Gli avvoltoi hanno fame. Lo rimette al suo posto e ne sceglie con cura una decina tra i più disparati della sua collezione.
«Leggi questi, se di mattina non sai cosa fare.» Ma lo avverte: «Però non entrare mai in camera mia. Chiedimeli sempre la sera prima. Quanti ne vuoi. E io te li presto.»
A un angolo della libreria c’è una cornice. È la foto di un uomo con i baffi accanto a un aeroplano. Ha in braccio un bambino. Luca suppone che sia il padre di Frosio.
«Ti va un bicchiere di vodka?» Frosio tira fuori una bottiglia dall’armadio.
«No, ti ringrazio,» declina l’invito. «Prendo dei farmaci. Non posso bere alcolici.»
«Io non li ho mai presi e mai li prenderò. Quella roba è veleno.»
Luca non commenta. Sta guardando le copertine dei fumetti che gli ha selezionato Frosio.
«Vieni in giardino,» gli dice. «Ti mostro la cosa più straordinaria che abbia mai visto in vita mia.»

Mi seccava entrare in comunità senza annunciarmi. Del resto, il citofono, se non aveva assunto il rango di opera d’arte concettuale, era puramente decorativo. Mi assicurai di non chiudermi il cancello alle spalle, ma di lasciarlo accostato. In compenso, non avrei dovuto nemmeno sfiorare la tenda bluastra, arrotolata su un lato del baldacchino da una stringa delle scarpe.
«Ripetilo ancora, ma questa volta non guardare il libro.»
Al tavolo della cucina, una ragazza studiava insieme a un’operatrice.
«L’erosione è una fase del processo siedi… cioè, sedimentario che… ma posso non dire sedimentario? Dico solo: è un processo che causa la deportazione di frammenti di roccia.» La sua voce usciva metallica. Poteva trattarsi di un disturbo uditivo, pensai. Ma nessun apparecchio acustico spuntava sopra l’orecchio della ragazza.
«Asportazione, non deportazione,» corresse l’operatrice. Il taglio geometrico del caschetto ne irrigidiva i tratti del viso. «Jenny, concentrati. Potresti imparare una parola nuova ogni tanto.»
«Non mi va di studiare a memoria senza capire,» piagnucolò. Aveva gli incisivi accavallati e alcuni denti storti. Se i problemi dentali di Freddy Mercury migliorarono la sua estensione vocale, quelli di Jenny non furono così generosi. Immaginai quanto si divertissero gli altri ragazzi a farle il verso.
«Non devi fare il pappagallo. Spiegami cosa succede alle rocce, con la pioggia, con il vento, quando un torrente scorre in mezzo alle montagne eccetera. Come se lo spiegassi a una tua amica.»
Mi diressi verso il salone per rintracciare la direttrice o un operatore libero da impegni. Erano le tre e mezza del pomeriggio e c’era meno movimento in comunità, rispetto alle ore di scuola. I ragazzi erano tutti chiusi nelle loro camerette a fare i compiti?
«Si staccano pezzetti dalla montagna e vengono trasportati via da lì.»
«Una spiegazione da scuola elementare, ma il concetto è quello.»
L’operatrice era su per giù della mia età. Eppure, mi metteva soggezione. Non avrei mai voluto trovarmi nella situazione di ricevere una strigliata da lei, come era successo giovedì scorso a Lello. Lui era stato persino in grado di mandarla a fare in culo.
Dal nulla, mi tornò alla mente la vecchia del film, che schiacciava le erbe mediche con il pestello.
«Perciò con il tempo si accorciano le montagne?»
«Sì, il vento, il mare, la pioggia lentamente le sgretolano.»
«Anche la nostra montagna una volta era più alta?»
«Che stupidaggini.»
«Ma come ha fatto a crescere nel nostro giardino?»
«Jenny, domani hai la verifica, non divagare.»
Non compresi a fondo l’ultimo scambio di battute. Non esclusi la possibilità di essere io a soffrire di disturbi all’udito.
La ragazza roteò la testa, seccata dai rimproveri dell’operatrice, e mi notò dietro alla parete di vetro.
«Marzia, c’è qualcuno,» disse con un dito puntato verso di me.
L’operatrice si voltò nella mia direzione, poi ritornò sul libro di Jenny e cerchiò con la matita alcune parole: «Sedimentario, detriti e granito. Per il momento queste. Cercale sul dizionario e scrivi la definizione nella colonnina bianca. Tra dieci minuti ti interrogo.» Assegnatele il compito si rivolse a me, ma non si alzò dalla sedia per presentarsi.
«Hai bisogno?» mi chiese. Forse mi aveva scambiato per un passante in cerca di informazioni su come raggiungere lo sportello bancario più vicino.
«Sono Gabriele,» dissi. Ma poiché il mio nome non significava alcunché, aggiunsi: «Del servizio civile.»
«Sì, lo so chi sei,» picchiettò la biro sul tavolo. «Luca è in camera sua.»
«Prima passerei dalla responsabile, se non è un problema. Giovedì aveva un impegno e non ci siamo ancora incontrati di persona.»
«Margherita, intendi? La direttrice? È in infermeria. La porta che vedi in salone.»
Avvertii la mancanza di Angela. I suoi modi mi avevano subito conquistato.
«Ciao Gabriele.» Comparve in cucina la direttrice, accompagnata da un operatore. Si sforzava di mantenersi in equilibrio sui tacchi. «Scusami se settimana scorsa non sono venuta ad accoglierti. Ho avuto un imprevisto.»
«Angela mi ha fatto fare un giro esplorativo,» sponsorizzai la mia collega.
«Ce ne sono di abissi da esplorare qua dentro.»
Marzia sorrise all’osservazione della direttrice. Sembrava un’altra persona.
«Non spaventarlo, che è appena arrivato.»
«Forse avresti preferito compilare le dichiarazioni dei redditi. Ma almeno con noi non ti annoierai.» Morsicò la caramella balsamica che stava succhiando.
«Non so se può essergli di conforto.» Anche se ero l’argomento di discussione, Marzia parlava alla direttrice, come se fossi invisibile. Evitava il contatto visivo con me.
«Marzia l’hai già conosciuta,» si sbilanciò con i tacchi. «Questo omone è Maurizio.»
Ci stringemmo la mano.
«L’educatore di Luca?» I suoi baffoni si mossero su e giù. Mi ricordarono quelli del tricheco di Alice nel paese delle meraviglie nella trasposizione animata di Walt Disney. «Ma non sarebbe meglio che affiancasse qualcun altro? Luca è tranquillo, non crea problemi. E poi non se ne vuole andare?»
Al contrario di Marzia, si assicurò di non escludermi dalla conversazione: «Non mi fraintendere, Gabriele, ci servono nuove leve. Quando arriveranno le cinture di contenimento ai letti, ti insegnerò ad allacciarle ai ragazzi più scalmanati. Sei giovane, robusto e mi potrai dare una mano.»
«Maurizio,» la direttrice gli lanciò un’occhiata. «Luca è qui da pochissimo tempo. Si deve ancora abituare. Proprio perché non crea problemi, lo vogliamo mandare via? Non sta soggiornando in un ostello.»
«Sì, ma Luca è qui per sbaglio, diciamoci la verità.» Strinse un sigaretto tra le dita. Gli mancavano solo i guanti scuciti per essere identico al tricheco disneyano.
«Il comune di Rio Guado l’ha assegnato a Gabriele. Che ti piaccia o no,» lo redarguì. «E che ti piaccia o no, l’ospedale non ci manderà strumenti di contenzione fisica.»
«Posso intervenire?» Jenny sollevò la testa dal libro.
«Hai finito di studiare il paragrafo?» le domandò Marzia.
«Ho letto e scritto il significato delle parole,» confermò. «Lello fa il bello e il cattivo tempo, mi chiama Bertuccia…»
«Tutti ti chiamano Bertuccia, non solo Lello,» ridacchiò Maurizio.
«Sì, ma fatemi finire,» si impose. «Non si può togliere la libertà agli altri. Io o Lello o Frosio, possiamo avere il nervoso, urlare, lanciare sedie, però non giustifica…»
«Cara mia, è una misura sanitaria,» la interruppe Maurizio.
«Hai passato bene il fine settimana?» mi chiese Margherita. «Basta chiacchiere. E tu, Maurizio, fammi un piacere, vai a chiamare Luca.»
«Ho fatto un po’ di pulizie in casa.» In realtà non era prevista una mia risposta, però l’attenzione era concentrata su di me e non spiaccicavo parola.
«Come ti capisco, in settimana non si ha mai tempo.»
Avevo sistemato la stanza degli ospiti, in attesa dell’arrivo del nipote della mia dirimpettaia. Gli armadi erano pieni di vestiti che non indossavo. Jeans di una taglia sopra la mia, pantaloni della tuta, pantaloncini corti e tutto il cattivo gusto dei miei genitori in fatto di felpe e smanicati. La lampadina del comodino era bruciata. Senza contare che quella stanza ormai fungeva da ripostiglio. Soltanto Sid ci aveva dormito una notte. Si era preso una sbronza cattiva ed era svenuto all’altezza di casa mia.
«Oh, Luca!» La direttrice salutò l’arrivo del mio assistito. «Oggi tu e Gabriele vi fate una bella passeggiata. Hanno aperto una nuova cremeria dopo il ponte. Prendetevi una cioccolata, una crêpe, o un succo all’albicocca.»
«Posso venire anch’io?» si inserì Jenny.
«Non se ne parla nemmeno.» Marzia fu categorica. «Oggi ti prepari alla verifica. Devi recuperare un’insufficienza.»
«Uffa,» frignò.
«Jenny dobbiamo fare un bel discorso io e te. Non puoi strillare tutte le mattine perché non vuoi andare a scuola. Cos’è questa storia?»
«Se resti in comunità, te li sogni il cinema, la pallavolo, l’orto,» le venne dietro Marzia.
«Tanto mi fanno cagare.»
«Brava,» applaudì Maurizio. «Io non ti faccio mettere piede fuori da camera tua. Come se fossi contagiosa. Non ti mando neanche in giardino, signorina. E ringrazia che l’ospedale non ci manda le catene ai letti.»
«Domani vedi di presentarti per la verifica di scienze. Altrimenti, Maurizio non ti porta a fare la scampagnata.»
«C’è altro?» Non ressi la nuova ramanzina.
«Conserva lo scontrino, che a fine mese ti rimborsiamo.»
«Va bene, allora noi usciamo,» cercai la complicità di Luca, che però era intento a fissare le piastrelle.

Mi ritrovo nudo sotto gli occhi di tutti. Questa sensazione mi accompagnava in qualunque ora precedente il crepuscolo, quando ero fuori per Rio Guado. Di solito, lasciavo casa solo per riempire il frigorifero o comprare le sigarette.
All’idea di imbattermi in un conoscente, le mie gambe si appesantivano e mi trattenevano al marciapiede. Una figura indistinta mi fermava senza badare ai convenevoli. Inclinava la testa per osservare meglio una macchia sul quadro. «Come mai non sei al lavoro?» Ci avrebbe creduto a un guasto alla centralina?
Quando ero praticante mi era capitato per davvero di interrompere il lavoro, perché era saltata la corrente in ufficio. Avevo perso tutti i dati inseriti in un foglio di calcolo. Per risollevarmi l’umore, un collega mi invitò a bere un caffè. In quel periodo, nessuno si sarebbe arrogato il diritto di intromettersi nei miei affari, se mi avesse incrociato al bar in pieno giorno. Mi avrebbe salutato. Mi avrebbe chiesto di portare i suoi saluti a mia nonna. O forse non mi avrebbe nemmeno avvicinato, pur riconoscendomi come il nipote di Lena.
Mentre costeggiavo il fiume con Luca, ebbi una premura nei suoi confronti.
«Luca, vorrei farti una domanda.»
Nonostante le buone intenzioni, la mia richiesta suonava pericolosa.
«Una domanda?»
«Se qualcuno mi chiede di noi, preferisci che ti spacci per un mio cugino?»
Al suo posto, avrei provato imbarazzo a essere presentato come il ragazzo che ha bisogno del sostegno di un educatore.
«Io non sono di queste parti,» mi informò. «Puoi benissimo dire che sei il mio educatore. Non mi cambia nulla.»
«D’accordo.» Non insistetti. Anzi, con il suo permesso, avrei alterato la verità a mio favore. Mi sono reso conto che non desideravo passare i miei giorni seduto su una scrivania. La mia vocazione era un’altra (omettendo ovviamente ogni riferimento al servizio civile).
Arrivati in cremeria, ordinammo due waffle al cacao e due frullati. Lungo la mia cialda si era depositato un lungo capello della cameriera. Lo levai, facendo attenzione a non sporcarmi le dita di cioccolato.
«È la prima volta che mangio un waffle,» disse Luca.
«E ti piace?»
«Buono.»
«Anch’io l’ho scoperto a mia volta, vedendo qualcuno che lo ordinava.»
«L’imitazione è una modalità di apprendimento. È stato uno degli ultimi argomenti, che abbiamo affrontato a scuola, prima del mio ricovero in ospedale.»
«Ti manca la scuola?»
Ritenni prematuro interrogarlo sulla sua esperienza ospedaliera.
«Era il giorno del mio compleanno, quando sono passato in segreteria a ritirarmi. Sempre meglio che risultare bocciato alla fine dell’anno,» ironizzò.
Per me, sarebbe stato umiliante ripetere un anno di superiori. Ero cresciuto con il tormentone di mio padre: O si studia, o si lavora. Alle elementari mi era concesso prendere non meno di B, alle medie non meno di buono, al liceo non meno di 7. Non mi riuscii di incoraggiarlo per forza.
«Mi sono rassegnato,» proseguì. «La direttrice mi ha proposto di frequentare le lezioni in classe come uditore.»
«Pensi sia una buona idea?»
Piantai a metà il frullato, troppo dolce al mio palato, e ordinai dell’acqua minerale.
«In comunità non mi passa più il tempo. Soprattutto la mattina. Sono da solo. Tutti vanno a scuola. Tranne Lello, ma dorme fino a tardi. E Berto, che si aggira tra i corridoi come un fantasma,» si morse il labbro inferiore. «Diciamo che non mi sono opposto.»
«Però non è nemmeno quello che vuoi.»
«Io voglio tornare a casa,» trattenne il magone. «Non sono come gli altri.»
«Infatti, tu hai un percorso più breve.»
«Sì, ma non ce la faccio a rimanere qui fino a luglio,» singhiozzò. «Voglio tornare alla mia vita di tutti i giorni. Alla normalità. Sono stufo di sentirmi diverso dai miei compagni di classe, di essere quello con i problemi.»
Capivo cosa intendeva. Anch’io desideravo riappropriarmi di un vero lavoro, girare per Rio Guado senza nascondermi dalla gente e smetterla di accampare scuse con gli amici. Fui tentato di confessarglielo, per gettare un ponte verso di lui. Ma prevalse l’autorevolezza del mio ruolo. Non sapevo quanto fosse giusto confondermi con la figura di un amico. Non avevo ricevuto nessuna formazione. Ero l’uomo comune dei film, che si ritrova suo malgrado a pilotare un aereo. Magari sarebbe stata Angela a fornirmi le istruzioni dalla torre di controllo.
«Mantieni i contatti con loro?»
«A dicembre mi ha telefonato la rappresentante di classe, suppongo a nome di tutti. Il mio migliore amico mi ha chiesto di non chiamarlo più a casa, perché i suoi genitori non sanno cosa mi sia successo. E per gli altri sono soltanto un banco in meno.»
Una coppietta di fidanzati sui trentacinque anni leggeva le proposte del menu pieghevole delle bevande calde. La donna era spaventata all’idea di non poter andare in Egitto in estate, a causa dei recenti disordini. L’uomo leggeva ad alta voce i vari tipi di tè. Era indeciso tra quello al gusto di ciliegia e cannella o il più tradizionale al limone.
«E vorresti tornare alla vita di tutti i giorni? » Avrei potuto rivolgere la stessa domanda a me stesso. Fu una scorrettezza. «Vorresti tornare a occupare un banco?»
Avevo rigirato le sue parole per farlo cadere in contraddizione.
«Amici che ti voltano le spalle, compagni che si lamentano, perché gli insegnanti ti riservano un trattamento speciale. Sarà circolata la voce che non hai un problema di asma, ma sei stato ricoverato in un ospedale psichiatrico? I migliori ti compatiranno, i peggiori ti staranno alla larga.»
«Ma finché resto in comunità, mi sentirò malato, diverso,» replicò. «I farmaci mi aumentano la sete. A volte, in piena notte allungo una mano verso il comodino per cercare una bottiglietta d’acqua. Non trovo l’acqua, né il comodino. Tasto il muro, ma non c’è traccia del pulsante della luce. E a quel punto mi ricordo dove sono. Perché non posso svegliarmi nel mio letto? O cenare con la mia famiglia? Non è questa la normalità? Perché devo convivere con uno che lancia le sedie per il salotto? Io non ho crisi isteriche, non ho tic, non ho problemi in famiglia. Io sto bene. Sto bene. Ma anche qua dentro, conduco una vita da pensionato. Non vado a scuola, faccio passare il tempo e sono in mezzo a gente problematica. Se me ne andassi dalla comunità, non cambierebbe molto probabilmente, ma sarei con i miei genitori, con i miei fratelli. Sarei a casa mia.»
«Scusami, se sono stato troppo duro,» ritrattai. «Però, prendila come un periodo di convalescenza. Nel fine settimana sei a casa con la tua famiglia e negli altri giorni trascorri del tempo con ragazzi della tua età. Non ti annoierai più, quando potrai andare a scuola, anche se come uditore. Il pomeriggio non fate delle attività tutti insieme?»
«È vero,» disse poco convinto.
«Con chi vai più d’accordo tra i ragazzi?»
Gli avevo già posto questa domanda, ma me ne ricordai solo dopo aver ascoltato la sua risposta.
«Con Diego Frosio,» guardò per aria, come se dovesse arrivargli dall’alto il suggerimento di un nome di riserva. «Alla fine, è con lui che vado più d’accordo. I nostri caratteri sono agli antipodi, ma ci troviamo bene a parlare insieme. Ci piacciono i fumetti, i libri, ascoltiamo la stessa musica.»
«Ne ho sentito tanto parlare di questo Frosio, ma non ho ancora avuto il piacere di conoscerlo.»
«Oggi andava tatuarsi una tigre sul braccio, ma mi sa che gli hanno fatto storie per l’età. Prima mi ha mandato un messaggio e gli ho scritto che ero alla cremeria con te. È un problema se ci raggiunge?»
«No, no, nessun problema.» Ero curioso di fare la sua conoscenza. «Però come si comporta? Penso alla faccenda dei biglietti da visita.»
«Solo con me può parlare di certi argomenti. In comunità passo per quello intelligente. Non che ci voglia molto, intendiamoci. Non parlo solo a livello culturale. Non credo che racconti a Lello o a Jenny di suo padre, del suo sogno di aprire una fumetteria o dell’esistenza degli zombie.»
«Degli zombie?»
«Si è domandato se gli zombie, ma vale anche per Dio o la magia, esistano per il fatto stesso che la nostra mente sia in grado di concepirli.»
«È così che la pensa?»
«Mi ha messo alla prova,» fece una pausa e spostò il portatovaglioli sul tavolo accanto. «La sua domanda era genuina, ma c’è un risvolto. Appunto perché mi ritiene a un livello superiore agli altri ragazzi, sono sotto la sua lente di ingrandimento, mi osserva, mi testa, mi giudica. E ho paura di deludere le sue aspettative. Più o meno, quello che è successo con i biglietti da visita.»
«Tu cosa gli hai detto?» Mi figurai Sid Vicious tormentarsi sull’esistenza degli zombie. Ne sarebbe stato capace. Io mi sarei appellato a San Tommaso e ci avrei riso sopra.
«Mi ha colto impreparato. Non ci avevo mai riflettuto sul serio.» Se ne fece una colpa. «Gli ho spiegato che gli zombie sono una metafora delle nostre paure, che siamo noi o parte di noi. Chi vive come se fosse già morto.»
«I miei complimenti. Se non me la fossi cavata con una battuta sulla salute mentale del mio interlocutore, al tuo posto, avrei balbettato tutto il tempo.» Ero ammirato dalla pronta risposta di Luca.
«Invece Frosio è rimasto perplesso.»
«E perché?»
«Mi ha detto che so tante cose, ma il mio è un sapere di superficie. Ha capito che Lovecraft e Romero li avevo sentiti nominare e basta. La mia risposta è stata più vaga, di come te l’ho riportata.»
«Sei giovanissimo, Luca,» dissi. «Prenditi tutto il tempo che ti serve, per approfondire le tue conoscenze. Mi consiglierai qualche lettura. Uno dei prossimi pomeriggi possiamo andare in biblioteca.»
«All’ultima riunione mensile, Frosio ha portato avanti la sua battaglia per ottenere il permesso di fumare in giardino, senza nascondersi dietro alla montagna. In comunità le sigarette sono bandite.» Non si curò del mio punto di vista. Il suo bisogno di sfogarsi, glielo impediva. «Io non ero ancora arrivato, ma fino a qualche mese prima, c’erano delle regole rigide sull’acquisto dei pacchetti di sigarette, ma ai ragazzi era concesso fumare.»
Luca allungò lo sguardo sulla strada e lo imitai.
«Hai visto Frosio?»
«Mi pareva, ma non è lui.» Riprese poi a parlare da dove si era interrotto. «Io pensavo di starne fuori. Non fumo nemmeno. All’improvviso mi chiede davanti a tutti un mio parere sulla questione. Io cerco di sottrarmi, non essendo parte in causa. Solidarizzavo con i miei compagni, ma di fatto gli operatori sono costretti ad attenersi alle disposizioni. E dopo aver ascoltato quello che avevo da dire, mi ha attaccato. Mi ha dato del qualunquista.»
«I suoi giudizi sono troppo perentori. Non darci peso. Tu sei più riflessivo, più maturo. Forse è per questa ragione, che lo interessi.»
«Davvero?»
«Sì,» risposi. «Secondo me è questo il punto.»
Dopo averlo rassicurato, mi sentivo libero di spostare la conversazione verso altro. Ma il sorriso di Luca rese vano il mio proposito.
«Eccolo, è lui. Sta arrivando,» attirò l’attenzione di Frosio con la mano.
Se Frosio avesse tardato di qualche minuto, gli avrei chiesto spiegazioni su che cosa fosse questa montagna, dove i ragazzi si nascondevano a fumare.

5.

Luca non si lascia lusingare. Come potrebbe? Ha una famiglia che si prende cura di lui, un carattere che gli permette di andare d’accordo con gli altri, un’intelligenza sopra la media. E le sue prospettive future non sono affatto deprimenti. L’anno prossimo cambierà classe, conoscerà i suoi migliori amici al corso pomeridiano di teatro, riceverà una delusione d’amore, ma la sua media scolastica non ne risentirà. Per molto tempo non avrà ricadute psicotiche.
Al momento, non riesce a intravedere niente di tutto questo. Eppure, non vuole rimanere qui. Nemmeno se non ci fossero gli operatori. Non lo attira l’idea di vivere in comunità da solo con i ragazzi. Non sente ragioni.
Luca vuole tornare a casa. Non è come Frosio, Lello, Berto, Steve, Jenny e Sandra. Non ha nulla a che fare con loro.
«E vorresti tornare alla vita di tutti i giorni? Vorresti tornare a occupare un banco?»
È una buona obiezione.
Anche se il suo percorso è di breve durata, una manciata di mesi o poco più, luglio gli sembra lontanissimo.

Frosio stava in piedi con una mano appoggiata al tavolino. Infilzò il coltello tra le aperture delle dita a velocità crescente, in un senso e nell’altro. Non si era preoccupato di asciugare la crema di cioccolato sparsa sulla lama. Si incitava da solo e richiamava la nostra attenzione, come se io e Luca fossimo concentrati su altro.
«Guardate, gente!» Il tavolino traballava sempre di più a ogni giro completo. La coppietta accanto a noi era riemersa da una spiaggia da cartolina sul Mar Rosso. L’uomo parlava a scatti e muoveva la testa da ogni lato. La donna gli si avvicinò con la sedia per udirlo. Socchiuse gli occhi. Sembrava ripararsi da un vento carico di sabbia.
«Diego,» dissi. «Stai giocando con il mio coltello.»
I colpi sul tavolino si fusero all’odore dolce e bruciacchiato di crêpe.
Alla finanziaria, non avevo mai imparato a trattare con i clienti molesti. Una volta il mio capo mi passò la chiamata di un uomo di mezz’età, che riteneva di essere stato truffato. I miei colleghi avevano abbandonato le loro occupazioni per assistere alla mia prestazione telefonica. Anche se avessi saputo come rispondere ai suoi insulti, non sarei riuscito a completare una frase. Solo dopo mezz’ora, si convinse di non aver confermato il pagamento di una rata sul sito delle poste.
«Ma tanto hai finito di mangiare.»
Con Frosio non potevo riagganciare il ricevitore, se le cose andavano per il peggio. Le sue cattive maniere, per non dire la sua maleducazione, erano calcolate. Luca lo aveva informato che ci sarei stato anch’io. Eppure era sorpreso di vedermi. Non si era nemmeno presentato, salvo uscirsene con un commento indisponente: Ah! C’è anche lui?
Decise di darmi le spalle. Le sue unghie mangiate uscirono dal mio campo visivo, occupato da una camicia a quadri rossa e nera che gli scopriva un lembo di schiena.
«Non fare baccano. Ci guardano tutti.»
Marzia mi avrebbe biasimato. Il mio rimprovero assomigliava più a una supplica. Ero proprio inadeguato al ruolo, sebbene al centro era emerso il contrario. Il suo profilo corrisponde alla posizione richiesta dalla comunità. Non c’è molto da aggiungere. Era il responso della psichiatra al colloquio di selezione, con il beneplacito della responsabile e della collega psicologa. E se avesse sbagliato scheda?
«Vuoi provare?» mi puntò la lama contro. Gli levai di mano il coltello e lo accoppiai alla forchetta dentro al piatto. La gelataia si sporse dal bancone per ripristinare l’ordine, ma vedendo che Frosio si era acquietato, rinunciò a intervenire. Come segno di protesta alzò le sopracciglia. Mi stava comunicando sia vicinanza, che disapprovazione. Il messaggio era chiaro. I bambini non hanno colpa se frignano, né i cani se abbaiano, ma c’è un limite a tutto.
La cremeria, che si chiamava come il santo a cui era dedicata la Chiesa dirimpetto, era un’attività di nuova apertura. Non aveva ancora senso parlare di clientela abituale, ma di clientela ideale. Coppiette che programmano le vacanze estive, famiglie senza figli in strutture sanitarie, pensionati in pausa dai corsi dell’Università della Terza Età. A uno della risma di Frosio, gli si chiedeva di pagare in anticipo. Lui stesso doveva sentirsi a a disagio a essere servito da un cameriere in uniforme, che spostava il cavalletto dei menu per far spazio alle ordinazioni e alla cartellina contenente lo scontrino da presentare alla cassa. Era l’effetto provocato dai biglietti da visita di Luca? Forse anche il posto dove eravamo contribuiva a tirare fuori la sua natura più selvatica. Erano però solo mie supposizioni, dedotte dai racconti che avevo sentito su di lui.
«Come mai hai avuto problemi con il tatuaggio?» provai a distrarlo per evitare che si inventasse un nuovo passatempo.
«Sei uno spione,» si rivolse a Luca. «Doveva rimanere tra di noi.»
Luca mugugnò le sue scuse. Io mi ero dimenticato di avere di fronte dei minorenni, che hanno bisogno del consenso degli adulti, perfino se vogliono accedere alla postazione internet della biblioteca. Il tatuaggio di Frosio sarebbe diventato l’ordine del giorno di una riunione operatori e utenti.
«Puoi stare tranquillo,» lo rassicurai. «Quello che mi dite, rimane tra di noi.»
«Fa parte del segreto professionale?»
«È la mia politica.»
Non credo esista un codice deontologico per chi svolge il servizio civile. Per Frosio ero una figura assimilabile a quella di un educatore o un assistente sociale. Avrei perso di credibilità, suppongo, se mi fossi presentato a lui come un semplice volontario senza qualifica. Sarebbe stata un’ottima occasione per screditarmi.
«Ti capisco benissimo,» aggiunsi a dimostrazione della mia buona fede. «Anche a me piacciono i tatuaggi. Ne ho uno sul polpaccio.»
«Davvero?» scatenai il suo entusiasmo. «E che cosa ti sei tatuato? Fammi vedere.»
Sollevai la gamba dei pantaloni fino all’altezza del ginocchio.
«È una figura astratta, una specie di spirale.»
«Ci sono molti elementi tribali. Però richiama anche l’Oriente. Strano.» Lo esaminò con la perizia di un esperto filatelico intento a stimare il valore di un francobollo.
«Non l’ho scelto da un catalogo. Può apparirti confuso. So che non è bellissimo. Il tatuatore non mi ha nascosto le sue perplessità e mi ha proposto delle correzioni. Ma io lo volevo proprio così.»
«Ah, l’hai disegnato tu?» mi chiese Luca. Non saprei dire se fosse mosso da curiosità o se volesse dare il suo contributo alla conversazione, per non apparire troppo taciturno.
«Sì. Non ho nessuna abilità nel disegno, se è quello che vuoi sapere. A dirla tutta, sono proprio negato.»
«E questo non ti ha scoraggiato?» riprese la parola Frosio.
«Come posso spiegartelo? Mi sono detto che avrei preso in considerazione l’idea di farmi un tatuaggio, solo se avesse avuto un significato per me.» Non riuscii a reggere lo sguardo di Frosio e di Luca e guardai fuori dalla vetrina, come a cercare il significato del mio tatuaggio sul furgone a lato del marciapiede fermo con le quattro frecce.
«Sono d’accordo. Un tatuaggio deve essere personale.»
«Un significato importante,» ribadii. «Ho amici che sono coperti da tatuaggi. Non vedevano l’ora di disegnarseli sul corpo. I primi se li sono incisi da soli. In loro prevaleva di più l’idea di avere una decorazione, una frase che suonava bene.»
Era lo stesso principio della lavagna appesa alle pareti della cremeria. Questo è un buon momento per una merenda. Ci devi pur scrivere qualcosa, anche se non hai nessuna promozione, né un gusto speciale di gelato da far assaggiare.
«E tu perché ti sei tatuato quella roba?»
«Una visione nel dormiveglia. Se preferisci, un sogno.»
«Spiegami cosa vuol dire.»
«Per fartela breve, stavo attraversando un periodo di forte stress tra università e lavoro. Avevo la fame nervosa, il respiro affannoso, dormivo poco la notte. Nel sonno o nel dormiveglia, non ricordo bene, mi apparve questa spirale. Cresceva sempre di più. Era piuttosto inquietante. Ho cacciato un urlo. Mi sono alzato dal letto e ho acceso tute le luci.»
La cameriera sparecchiò il tavolo della coppietta. Si piegò per raccogliere le tazze del tè e le notai il tatuaggio di una rosa sulla nuca.
«Ti sei tatuato un incubo? Non so se al tuo posto l’avrei fatto.»
«Però ho capito che non potevo continuare così. Mi stavo facendo del male. E ho deciso di tatuarmi la spirale come monito. Anche se non me la sognavo più, di giorno ci pensavo spesso. Sforzavo la memoria. Ricostruivo i particolari.»
Luca stava strappando delle striscioline da un tovagliolo di carta. Frosio provò a coinvolgerlo: «Tu l’avresti fatto? Ti saresti tatuato un tuo incubo? Non so, magari nel tuo caso, un calendario dove segni i giorni che ti mancano da trascorrere in comunità.»
Luca fece un sorriso stiracchiato: «Non credo proprio.» Appallottolò i rimasugli del tovagliolo e se li strinse nella mano.
«Sai che mi hai dato un’idea per un tatuaggio,» disse Frosio.
«Al posto della tigre?» chiesi.
«Oltre alla tigre, vorrai dire,» precisò. «Per il momento, me lo tengo per me.»
Mi era venuta sete. Ordinai una bottiglia d’acqua e un’aranciata per Frosio. Luca non aveva ancora finito di bere il suo frullato.

Di ritorno dalla cremeria, Luca e Frosio mi distanziarono di un paio di metri. Si stavano accordando per andare insieme a uno spettacolo di blues e cabaret. Secondo Frosio, Margherita avrebbe acconsentito, solo se Luca si fosse unito a lui. «Naturalmente, voglio stare in tua compagnia. Sei l’unico in grado di apprezzare certa musica.» Ci teneva a sottolineare, che non intendeva sfruttare il compagno per i suoi scopi.
Attraversarono con il giallo al semaforo pedonale e non si fermarono ad aspettarmi. In lontananza, sentii pronunciare i nomi di Tom Waits e B.B. King. Per non perdere terreno, salutai di corsa un’amica dei miei genitori e superai una coppia di anziani, uno dei quali si muoveva con il deambulatore. Rimasi dietro di loro fino in comunità. Quando si voltarono, si stupirono di vedermi.
«Sei ancora qui?» mi disse Frosio. «Pensavo che te ne tornavi a casa.» Anche se la sua straffottenza era rivolta a me, mi fece ridere. La mia reazione gli provocò un sorriso che trattenne a fatica.
«Posso portarti via Luca? Devo parlargli di una faccenda,» all’improvviso divenne gentile.
«Non ne hai avuto il tempo, quando mi avete seminato?» lo punzecchiai.
Scostata la tenda, mi apparve Angela seduta sul divano del salone. Stava sciogliendo una treccina a una ragazza che non conoscevo.
«Ma non mi ero nemmeno accorto che ci seguivi,» si difese. «Allora possiamo? Ci serve un quarto d’ora scarso.»
Non avevo ragione di oppormi alla sua richiesta. Senza Luca, avevo campo libero con Angela.
«Non mi metterò a cronometrarvi. Andate pure,» gli risposi. Luca non fiatò. Avevo l’impressione che cercasse di dirmi qualcosa con gli occhi.
«Gabriele,» mi chiamò Angela. «Finisco qui e poi ci prendiamo un caffè. Ce l’hai la chiavetta, vero?»
«È qui con me,» picchiettai sulla tasca dei jeans. Potevo dimenticare il portafoglio o le chiavi di casa, ma non un talismano, che aveva il potere di farmi trascorrere del tempo con Angela.
«Sono quasi pronta,» rimase concentrata sui capelli della ragazza. Un nodo richiese molta pazienza.
«Sandra,» disse Frosio. «A rapporto.»
«Un momento,» rispose. «Sto facendo un’altra cosa adesso.»
«Che ci siamo detti ieri?»
«Ops, me lo sono dimenticato.»
Si riparò la bocca con la mano. Quando se la tolse, le spuntò – ma doveva avercelo da prima – un brufolo sotto il mento grosso quanto un fibroma.
«Ti prendo per i capelli e ti porto fuori.»
«Frosio, piantala. Ti ha detto che tra un momento arriva,» lo riprese Angela.
«Muoviti.» tagliò corto e uscì dal salone.
«Me ne manca uno solo, ma è il più ostico,» sorrise.
I suoi anelli le nascondevano le dita. Al medio ne aveva uno enorme di pietra verde a forma ovale. Da qualche parte avevo letto che indossare un anello al dito medio è indice di equilibrio, responsabilità e sicurezza di sé.
«Questa è l’ultima volta che ti sciolgo le treccine, mia cara lady Ops.»
«Tu sei il nuovo educatore?» mi chiese la ragazza, fingendo di non sentire l’avvertimento di Angela.
«Sì.»
«Come ti chiami?»
«Gabriele. Tu ti chiami Sandra?»
«Quanti anni hai?»
Non mi lasciò rispondere. Aveva già in serbo un’altra domanda.
«Sei originario di Rio Guado?»
«Non è un interrogatorio,» la interruppe Angela.
«Volevo conoscerlo meglio,» fece una smorfia.
«Su, vai da Frosio. Qui abbiamo finito.»
Angela si alzò dal divano e si sistemò i pantaloni a righe.
«Se vuoi lavorare in comunità devi possedere competenze trasversali. A parte le mansioni ufficiali, sono richieste buone capacità dietro ai fornelli, spiccate doti artistiche, basi di acconciatura e trattamenti estetici, aiuto compiti, esperienze pregresse nell’animazione turistica.»
Quel pomeriggio indossava gli occhiali. Una montatura ramata. Le lenti erano sottili e rotonde come sottobicchieri.
«Ci vorranno anche fondamenti di economia,» mi calai nella parte della spalla comica per uno sketch sulla vita in comunità a cui non assistette nessuno spettatore.
«Di economia domestica, soprattutto. Essere sempre aggiornati sui prodotti in offerta del supermercato.»
«Quanto lo danno il caffè qui?»
«Quaranta centesimi senza paletta.»
«Ma perché non sfruttate la cucina e non lo fate con la moka? Cosa vi serve il distributore?»
«Noi abbiamo solo caffè decaffeinato, tè deteinato. Birre analcoliche. No, scherzo quelle no. Forse non teniamo più nemmeno il caffè decaffeinato. È per i ragazzi. Hanno quasi tutti una terapia da seguire e poi sono già agitati di loro.»
«E gli educatori vanno alle macchinette.»
«Solo i privilegiati che hanno la chiavetta,» cambiò voce. Non era altro che un gioco tra colleghi, ma quando succedeva dimenticavo di essere l’ultimo arrivato dal servizio civile. Come diceva il ritornello di Hey there Dalilah, “Oh, it’s what you do to me”, è l’effetto che mi fai. Un verso solo ripetuto quattro o cinque volte di seguito.
Scendemmo le scale. In fondo a un corridoio di stanze chiuse, c’era uno sgabuzzino con una porta a soffietto. Tutto lo spazio era occupato dal distributore.
«Quanto zucchero?»
«Due palline.»
Io il caffè lo bevevo amaro.
«C’è un altra ragione per cui è stato installato il distributore.» Soffiò sopra il bicchiere di plastica.
«E quale sarebbe?» Io fui meno avveduto e mi bruciai la lingua.
«Ti parlo degli anni Novanta. In quel periodo lavorava qui solo Maurizio. È lui che me lo ha raccontato.» Si bagnò le labbra con un sorso di caffè. «Era un modo per tenere separati i ragazzi dalle persone esterne. Appena aperta la comunità, facevano avanti e indietro muratori, elettricisti, idraulici… In pausa pranzo, mangiavano in una di queste stanze. Il responsabile di allora preferiva che non avessero contatti con gli utenti. Meno vedevano, meglio era. Oggi ci facciamo le riunioni o le usiamo per i laboratori di découpage.»
Non volevo chiederle che cosa succedeva in comunità. Avevo trascorso il mio pomeriggio a mangiare waffel e a bere frullati e caffè. Avevo parlato di tatuaggi con Luca e Frosio. E ora scherzavo in uno sgabuzzino con Angela. Non davanti a un distributore di bevande. Non finché avevo in mano la chiavetta. “Oh, it’s what you do to me”, è l’effetto che mi fai.
Angela si tolse la paletta dalla bocca e la gettò nel cestino insieme al bicchiere.
«Oggi pomeriggio hai conosciuto Frosio? Impressioni?» Intavolò un nuovo argomento.
«Mi ha messo alla prova e io mi sono sentito sotto esame. Mi dà l’idea di essere un tipo che non crede alla differenza tra poliziotto buono e poliziotto cattivo, ma vuole comunque sapere a quale categoria appartieni.»
«Molto probabile. È da lui atteggiarsi in quel modo.»
«Però ti confesso di essere un po’ deluso.»
«Frosio non è certo un ragazzo che dà soddisfazioni.»
«Sarà che ne ho sentito parlare così tanto, ma mi aspettavo un tipo più…» Stavo per dire intrigante, ma mi censurai. Dissi invece «interessante».
Mi appariva come un comune adolescente che attira l’attenzione su di sé, rissoso e menefreghista, di quelli che hanno un cattivo rapporto con gli adulti. E niente di più.
«Cosa intendi?» Angela era perplessa. «Non ospitiamo mica giovani prodigi. Sono dei ragazzi che hanno problemi famigliari e psichiatrici.»
Alla fine, era pur sempre un sedicenne. Mi sentii uno stupido per essermi lasciato scappare quelle osservazioni su Frosio.
«Li hai conosciuti tutti i ragazzi?»
«Non saprei,» risposi. «Luca e Frosio. La ragazza delle treccine.»
«Sandra.»
«Quella che non vuole andare a scuola.»
«Dai, saliamo, che te li presento. Oggi dovrebbero esserci tutti.»
Al piano di sopra, ci venne incontro un operatore, che si grattava la barba a chiazze. Un po’ camminava e un po’ saltellava. Fremeva al pensiero di vedere un altro essere umano.
«Ma Angela, chi è di turno oggi pomeriggio? Non c’è nessuno. È da mezz’ora che sto provando a telefonare a Margherita, ma non risponde. Non possono lasciarmi qui da solo.»
«Calmati, Ares,» Angela gli appoggiò una mano di conforto sulla spalla. «È successo qualcosa?»
«Io sto diventando matto, te lo dico. Non ne posso più.» Dalla barba, passò a grattarsi i capelli. «Tu sei quello del servizio civile? Scusami se mi sfogo, non sono sempre così inquieto.»
«Nessun problema,» minimizzai.
«Marzia dov’è? Olivia? Possibile che sia di turno solo io? Paola è in ferie. Chi la sostituisce? Maurizio porta i ragazzi domani alla scampagnata. Bene. Sette bestie da gestire per conto mio. A parte Luca, eh! Facciamo sei. Ma anche lui è andato fuori con gli altri.» Parlava con l’acceleratore, mangiandosi le parole.
«Come fuori? Dove sono andati?» sgranò gli occhi.
«Fuori. Si sono messi sopra la montagna.»
«Ah, meno male.» Angela fu sollevata.
«Sì, ma non hanno intenzione di rientrare. Non mi ascoltano. E piove pure.»
«Deve trattarsi di qualcosa di importante, se non si riparano nemmeno dalla pioggia. Andiamo a controllare»
«Andate voi, però. Io ho già dato.»
Ares riprese in mano il telefonino e tentò di richiamare Margherita.
Scoprii che oltre le scale c’era un corridoio, circondato da un finestrone scorrevole.
«Eccoli lì,» me li indicò.
Vedevo i ragazzi. Uno per uno. Non erano nascosti a fumare. Al contrario, svettavano sopra un’altura erbosa come sette bandierine innalzate al cielo. Non capivo se parlassero tra di loro o se avessero formato un semicerchio silenzioso. Dalla mia posizione, non percepivo nessun movimento di labbra. Luca e Frosio avevano le braccia conserte. Sandra fissava il vuoto. Steve si guardava i palmi delle mani. Jenny aveva la testa inclinata verso l’alto, Lello verso il basso. Berto spostava della terra con il piede. Sembravano assistere a una commemorazione senza oratore.
«È quella che chiamate montagna?» domandai ad Angela. La punta toccava i tre metri circa.
«Non eri ancora venuto da queste parti? Comunque, sì, è proprio lei.»
Anche noi restammo in silenzio inchiodati alla finestra. Continuava a piovere. Una pioggerellina fastidiosa, se non si indossa almeno un cappello.
Una cabina elettrica era incastrata dentro la montagna. Era una sorta di protesi? Il suo cuore pulsante?
«Manca qualcuno all’appello? Altrimenti li ho conosciuti tutti.»
Angela non mi rispose. Ma in compenso, Frosio si mise a gesticolare. Stava parlando ai ragazzi. Jenny lo interruppe. Lello sghignazzò. Sandra fece un’espressione scocciata.
«Secondo te di cosa stanno parlando?» Angela riprese coscienza.
«Tu sai già la risposta?»
Scoppiò a ridere. Poi si pulì gli occhiali con un fazzoletto di stoffa.
«Sono una psicologa, non un’indovina.»
«Me l’hai detto con il tono di una persona informata sui fatti.»
«No, niente affatto.»
Ora stava parlando Steve. Non era diventato preda del suo tic, seppure fosse visibilmente concitato.
«Non saprei, ma ho paura che non stiano pianificando i turni per pulire i piatti.»
«Altamente improbabile. Concordo.»
«Tu li conosci meglio. Devi dirmelo tu.»
«Non riesco a interpretare il linguaggio del corpo. Sono passati dalla catatonia al fervore.»
«Deve trattarsi di qualcosa di importante,» riproposi la stessa tesi che Angela aveva espresso davanti ad Ares.
Il giorno dopo iniziavo il turno di mattina. Avrei chiesto a Luca il motivo di quella riunione all’aperto. Avrebbe fatto il vago o me l’avrebbe detto senza problemi? Ma era un’altra la domanda che mi assillava. Come era cresciuta una montagna nel giardino della comunità? Era più fuori posto di me.

6.

«Muoviti Jenny, che tra dieci minuti hai il pullman.»
«Uffa! Perché Lello può starsene in comunità a dormire, e io invece devo andare a scuola? Non ho voglia.»
Jenny sbatte la porta e ritorna a letto.
«Non va bene così! Lui ha finito le medie perlomeno. Tutti i giorni è sempre la stessa storia.»
«Mi hai rotto i coglioni.» risponde Jenny con un’espressione cara a Frosio.
Marzia spalanca la porta.
«E no, cara mia, adesso ti vesti e vai a scuola.»
La ragazza pianta i piedi a terra, si aggrappa a uno stipite, poi alla maniglia. Ma quando l’operatrice la trascina a forza in cucina, scivola sul pavimento come una giocatrice di hockey.
«Se non ti muovi, ti ci porto io a scuola. A calci nel culo.»
Le urla di Marzia entrano nel sogno di Frosio, seduto su un treno fermo in mezzo alla pianura. Fuori dal finestrino una ragazza con la salopette è preda dei bracconieri. Scalcia, raglia e piange. Ha un corpo di daino, rossiccio e maculato. Le zampe sono d’anatra.
«Hai dieci minuti per fare colazione e metterti qualcosa addosso,» dice Marzia. «Nove minuti e trenta secondi, per l’esattezza.»

Frosio è in accappatoio e ciabatte. Apre il frigorifero e prende un panetto di burro. Canticchia When the saints go marching in, sotto lo sguardo divertito di Lello. Imburra una fetta di pane e gli versa sopra una goccia d’olio. La sua merenda è pronta.
«Oh Lord I want to be in that number.» Non si cura della presenza di Lello in cucina. «When the saints go marching in.»
«Che bravo,» dice Lello e gli batte le mani. «Potresti andare a Sanremo.»
Frosio non ha voglia di rispondergli con la bocca piena. Aspetta l’ultimo morso.
«Certo che fai schifo Lello,» gli dice.
«Stronzo,» sorride. «Perché faccio schifo?»
«Ma non te ne rendi conto da solo?» infierisce. «Appena puoi ti metti a letto, sembri un pensionato. Non fai niente da mattina a sera. Fumi, bestemmi e fai cazzate.»
«Grazie.» Lello lo prende come un complimento.
«Non sto scherzando. Vuoi continuare così a lungo?»
«Tutti qua dentro fumano, bestemmiano e fanno cazzate. Mi sembri la mia assistente sociale.»
Frosio riapre il frigorifero e tira fuori il latte. Non sa se berlo direttamente dal cartone o versalo in un bicchiere.
«Sì, ma almeno gli altri vanno a scuola, impiegano la giornata.»
«Che palle che sei.»
Lello preferiva sentirlo canticchiare.
«Sai dire solo: “Viva la mafia! Viva la mafia!”. Non sai neanche cos’è.»
«Non è vero.»
«Ma che cazzo ne sai tu della mafia?»
«E invece ne so.»
Frosio avvista una tazza pulita nel lavandino.
«Guarda che mi preoccupo per te.»
«Diego Frosio che si preoccupa per me? Non ci credo…»

Steve è stato il primo. Il suo è un talento che non sa di possedere. Eppure è visibile a tutti. Come una voglia di vino che ci si porta addosso dalla nascita, o un’escrescenza spuntata dal nulla.
Le formiche corrono più veloci quando la pressione è in aumento. Le gazze gracchiano e sbattono forte le ali per annunciare la pioggia.
Ma lasciamo agli animali le previsioni del tempo.
Steve capta il segnale. Il corpo lo trasmette alle sue frequenze.
Due colpi in fronte.
Uno dietro all’orecchio.
L’ultimo sui genitali.

“Lady Ops” suona meglio di “Cicciona di merda”.
Il soprannome è un’idea di Margherita. Ha riscontrato un immediato successo, specialmente tra gli operatori. A scuola no, continuano con il vecchio. Mentre per i ragazzi della comunità è Sandra. In verità, la chiamano “Lady Ops” solo se fa una cazzata e “Cicciona di merda” solo se fa una grossa cazzata.
Lei non vorrebbe avere soprannomi, anche se trova grazioso“Lady Ops” (l’ha riciclato per il suo indirizzo mail). Detesta persino il suo di nome. Sandra. Non è il diminutivo di Alessandra. In quel caso, sarebbe stato abbreviato in “Ale” e l’avrebbe sopportato meglio. Ma il punto è un altro.
Non vorrebbe essere chiamata in nessun modo. Non vorrebbe avere un nome.
Vorrebbe però che qualcuno si accorgesse di lei, come di una qualunque e anonima lucertola entrata in casa. Quando trascorreva l’estate in campagna, succedeva spesso di vedere i nonni indossare i guanti da lavoro, perché le lucertole mordicchiano, e di raccoglierne una spaventata e riportarla in giardino.
Sandra è entrata in comunità allo stesso modo, ma nessuno ha le stesse premure dei suoi nonni.

Berto va avanti e indietro per il salone. Finché Lello non gli si para davanti per impedirgli ogni via di fuga.
«Dove vuoi andare?Dillo a Lello.»
Berto ride e si fa largo, ma non riesce a scansare il compagno di stanza.
«Dai, vieni a fumare una sigaretta con me. Vedrai che ti sentirai meglio.» Lello gli mostra il pacchetto di Camel.
Berto usa la testa come un ariete da sfondamento.
Lello fa fuoco con l’accendino e avvicina la fiamma ai capelli di Berto.
«Ohh,» si lamenta. Prova ad afferrare l’accendino, ma Lello lo nasconde dietro la schiena. Poi glielo agita davanti agli occhi.

Dove si potrebbe aprire una fumetteria? A Rio Guado non ce ne sono. E forse non se ne sente nemmeno l’esigenza. D’altra parte, se nella nostra cittadina c’è una libreria esoterica, perché non dovrebbe trovare posto una rivendita di manga?
Frosio sa già come allestire il suo negozio. Il bancone se lo immagina all’entrata, sulla sinistra, vicino alla teca delle Action Figure. Gli albi Marvel e DC Comics sono sopra gli scaffali, dentro ai contenitori per i vinili. L’espositore delle nuove uscite deve occupare una parete. Ipotizza almeno tre sezioni tematiche: fumetto giapponese, italiano e franco-belga, e graphic novel. In un locale a parte, saranno messi a disposizione dei tavoli per leggere i fumetti e giocare a Magic o a Dungeons & Dragons. Non può mancare un distributore automatico di caffè e bevande.
«E con che soldi?»
Le osservazioni di Margherita frenano l’entusiasmo di Frosio.

Steve è stato il primo. Subito dopo è arrivato Berto. La perseveranza è importante quanto il talento.
Nel suo andirivieni tra il salone e camera sua, deve aver percepito qualcosa di insolito. Un mormorio. Un fruscio nell’erba. Un gioco di ombre. Un odore più intenso del muschio e della menta. Nota una macchia sul muro e si chiede se c’è sempre stata e come mai non se ne è accorto prima. Un rumore proveniente dalla cucina lo sveglia di soprassalto.
Berto sta in guardia. Non è dell’umore per leggere le vignette umoristiche della Settimana Enigmistica insieme a Luisa. Va avanti e indietro. Gira su se stesso. Digrigna i denti.
Quando si sente pronto, esce in giardino.

«Non farti vedere,» la riprende Frosio. «E non dire “Ops” o ti mollo un ceffone.»
Sandra non è una lucertola, ma condivide un giardino con i ragazzi della comunità.
«Ops!» lo istiga. «Scusa, volevo dire: Ooops.»
«Cicciona,» le risponde. Scusa, anzi, ops… Volevo dire: mangiona. Mangiona si può dire.»
Lello ride.
«Sei un idiota.»
Frosio le soffia il fumo in faccia.
«Piantala.»
Anche Sandra ci prova, ma le esce una nuvoletta.
«Non sai neanche fumare,» dice Frosio. «Tieni tutto in bocca senza mandare giù.»
«Dovresti fare lo stesso con il cibo,» sghignazza Lello. «A quest’ora, peseresti la metà.»
«Siete dei deficienti.» Sandra non si scompone. Fa la superiore. «E io che continuo a darvi retta.»
«Incomincia a non scroccarci più sigarette,» le rinfaccia Lello.
«Questa l’ho rubata a Margherita.»
Frosio guarda verso la porta del giardino.
«Merda,»
«Che succede?»
«Buttate le sigarette, sta arrivando Maurizio.»

Frosio non riesce a procurarsi una sigaretta da nessuno. Ruba qualche moneta dall’infermeria ed esce dalla finestra per comprarsi almeno un pacchetto da dieci. Jenny e Sandra sono solo delle scroccone. Lello invece è a colloquio con la sua assistente sociale. Si dimostra inutile quando serve.
Tornato dal tabaccaio, Frosio si stende a letto e si accende una Pall Mall. Ha letto da qualche parte che era la marca di sigarette che fumava Jim Morrison. Sul cantante dei Doors, sa che non aveva una dimora fissa e vagabondava per infimi alberghi. Quando era iscritto alla facoltà di cinematografia, viveva sul tetto di un palazzo e aveva sparso la voce di essere orfano.
«Diego,» Marzia bussa alla porta di camera sua. «Margherita ti deve parlare.»
Non è il solito colloquio individuale a cadenza mensile.
«Non ho voglia. Più tardi.» Lancia il mozzicone della sigaretta per la strada.
Margherita pretenderà delle spiegazioni in merito alla bottiglia di vodka. Frosio non la trova più nell’armadio.
«Vieni fuori sì o no?» Marzia perde la pazienza. Una raffica di colpi si abbatte sulla porta.
«Brava, buttala giù. Testa di cazzo.»
Frosio esce, prima che entri Marzia e senta odore di sigaretta.
«Non permetterti mai più di insultarmi,» lo avvisa. «Oggi non mangi con noi. Resti in camera tua. E dopo cena sparecchi tu.»
«Sbraiti e butti giù le porte. Sei peggio di Lello.»
«Muoviti. Margherita ti sta aspettando.»
«Vado, vado. Sei pazza però.»
«Ti arriva un ceffone! Stai attento.»

Jenny ha in mano un taglierino. È assorbita dai suoi pensieri. Non si accorge di toccare la punta della lama con il polpastrello. Non si accorge nemmeno di sanguinare.
A scuola, c’è un ragazzo che le piace. Ha preso il voto più alto nella verifica di scienze. All’inizio dell’anno, era gentile anche con lei. Non voleva mai indietro i fogli protocollo e le mine della matita a scatto.
Jenny può sentirlo quando gli insegnanti gli dicono di parlare a voce più alta. Non è per tutte le orecchie, la sua voce bassa e rauca.
I suoi occhi invece cambiano colore alla luce del sole. Ieri però non erano nocciola e non erano verdi. Colpa dei suoi amici che prendevano a calci lo zaino di Jenny al coro di «Scimmia, raddrizzati i denti». Lui non si è unito a quelle bestie, ma non è intervenuto per difenderla.

Ironia della sorta, la madre di Sandra ha un fisico mozzafiato. Lavora in un night come ragazza immagine. A maggio compirà quarant’anni ed è stufa di farsi offrire da bere dagli uomini e di ballare con loro nei privé. Chi paga non si accontenta di uno spogliarello e di una palpata di tette. In primavera, potrebbe aiutare il fratello a gestire un negozio di abbigliamento.
Sandra racconta che sua madre è un’ex tossicodipendente, come quella di Jenny. Ma a scuola tutti sanno che non è vero. Gli altri genitori la chiamano “La showgirl”.
Un suo compagno di classe ha preso una nota per una battuta, ma ne è valsa la pena: «Ma è vero che tua madre lavora in un circo? Lei fa la domatrice di leoni e tu la donna cannone.»
«Sì, e tu sei la donna barbuta,» ha replicato senza successo. Stavano tutti ridendo per“la donna cannone” e per il presunto lavoro della madre al circo.

Ovviamente nessuno ci ha creduto. Steve non poteva misurarselo senza nemmeno un righello. È stato beccato a spremersi il pisello in bagno e si è giustificato con la prima panzana che gli è venuta in mente.
«Che schifo,» gli dice Jenny. «Queste cose falle la sera sotto le lenzuola.»
«Ma dimmi una cosa, Segaiolo, pensavi a Jenny o a Sandra?» gli chiede Lello.
«Che sfigato,» commenta Frosio. «Io le seghe me le faccio fare dalle tipe.»
«Da chi? Da Jenny o da Sandra?» insiste Lello.
«Ho detto “tipe”,» puntualizza Frosio.
Uno dei giochi di gruppo dei ragazzi consiste nel redigere un report più o meno attendibile sulle abitudini di Steve.

Martedì 18 gennaio
NUMERO DI PIPPE: 2 o 3
RICHIAMO DELLA MONTAGNA:
Ore 14:43 Intenso
Ore 15:30 Media intensità
Ore 16:08 Lieve
Ore 17:00 Media intensità
Ore 18:05 Intenso
Ore 20:55 Intenso
Ore 21:13 Moderato

C’è un posto libero sull’autobus scolastico. Jenny lo occupa con lo zaino. Il ragazzo che le piace si aggrappa ai sostegni. Non ha intenzione di sedersi accanto a lei, ma ha qualcosa da dirle.
«Mi aiuti a vincere una scommessa?»
Jenny va in confusione. Le sembra di non vedere bene.
«Che scommessa?» Le esce una voce stridula, meno metallica del solito.
«Devo bere tutta questa bottiglia di tè. Ma da solo non ce la faccio. Ho tempo fino a quando arriviamo alla fermata.»
Anche se ha mangiato una barretta di cioccolato bianco, non ha molta sete. Ma per il ragazzo che le piace si disidrata volentieri.
Accetta di aiutarlo. Beve una sorsata. È calda e salata. Il sapore è disgustoso.
Sputa il tè sul sedile. Non ha pensato che poteva essere urina.
L’autista chiede cosa stia succedendo nelle ultime file.
«Se apri bocca, ti faccio male,» la spaventa un amico del ragazzo che le piace.
Per colpa di quello stupido scherzo, la Scimmia è diventata Quella che beve la piscia.
Non c’è un suo coetaneo in paese che non lo sappia.
«Ma si dice “urina” o “orina”?»
«A parte gli scherzi, è buona?»
«Ti manca solo la merda, e sei a posto.»
Jenny scorre la lama del taglierino.
Il libro di scienze ha solo una macchiolina rossa su una colonna bianca. Gli appunti si leggono ancora.
Jenny si succhia il dito. Si guarda il braccio. All’esame del sangue, l’infermiera fatica sempre a trovarle le vene.

L’insegnante continua a interrompere Steve per commentare ogni parola della sua esposizione: «Potresti almeno pronunciare bene “made in Japan”.» Oppure: «È da quindici minuti che ci giri intorno.»
Steve ha sotto al naso la verifica della scorsa settimana, così può rendersi conto dei sei suoi errori e di quanto sono grossolani.
«Come pensi di sopravvivere alle superiori con una preparazione così scarsa?»
Steve fissa una faccia che si contrae sempre di più, sperando quasi di trovare, tra una ruga e una fossetta, il modo per aggirare la domanda.
«Ha ragione,» dice in automatico. La mano gli trema.
«Lo so che ho ragione. Non devi dirmelo tu!»
Steve farfuglia delle scuse. Si sforza di nascondere un sorriso che gli spunta sulle labbra senza motivo. Non vede l’ora di alzarsi dalla sedia per completare il rito.
«Se provi a fare il tuo balletto, non entri più in classe.» lo ammonisce. Ma le sue parole non hanno nessun potere inibitorio.
Due colpi in fronte.
Uno dietro all’orecchio.
L’ultimo sui genitali.
«Finiamola qui,» dice l’insegnante. Segna l’insufficienza sul registro e manda Steve a posto.

Frosio vuole sapere come finisce I pirati della Malesia. Gli mancano poche pagine, quando viene chiamato a quell’inutile riunione utenti e operatori. È già trascorso un mese dall’ultima.
«Interessa anche a te quello che stiamo dicendo» le dice Margherita
«Sto ascoltando,» ribatte.
«È questione di educazione. Vedi qualcun altro che legge?»
«D’accordo la smetto. Sentiamo cosa avete da dire.»
«Si sta parlando di Jenny che fa storie per andare a scuola.»
«Ecco, vedi di piantarla, Bertuccia, che oggi mi hai svegliato. Hai rotto i coglioni.»
«Piantala Frosio! Non chiamarmi…» Jenny ha un nodo in gola.
«E ora di finirla. Marzia non ce la fa più a sopportarti,» prosegue Margherita.«Basta con le scenate, intesi?»
Jenny annuisce e trattiene le lacrime.
«Posso fare un intervento sulle condizioni del bagno dei maschi?» chiede la parola Maurizio.
«Ne hai facoltà.»
«Cari miei maschietti, non sapete neanche farla dentro. Il pavimento è tutto sporco di piscio. E tu Steve, quando ti tocchi, pulisci almeno.»
Steve arrossisce.
«Ciao Segaiolo,» gli dice Lello. Le ragazze ridono.
Marzia mantiene le braccia conserte. Ora è il turno di Ares.
«Tra poco riprendiamo a coltivare l’orto. Siete contenti?»
«Che palle,» sbuffa Sandra.
«A me piace invece.» Jenny si è ripresa.
«Ma se l’hanno scorso non sei mai voluta venire,» le fa notare Ares.
«Ma quest’anno è diverso.»
Sì, quest’anno è diverso. C’è da scommetterci.

Berto è in giardino. Scava una buca con la paletta del ghiacciolo. Non sposta molta terra. È ancora umida. Il solletico è piacevole.
Un lombrico emerge dal suolo. Ares dice che i lombrichi sono dei fertilizzanti naturali.

«Sono nervoso.»
Lello vaga per il salone e tira calci al divano. Vuole le sue gocce per dormire.
«Che succede?» Angela lo segue. «Le hai già prese mezz’ora fa. Non possiamo dartene altre. Ma se hai bisogno di parlare, ti ascolto.»
«No, non voglio parlare. Sono solo nervoso. Se prendo le gocce, mi sentirò meglio. Mi conosco.»
«Ma cosa ti rende così nervoso?»
«Sono cazzi miei, va bene.»
«Su Lello, siamo qui tutti per aiutarti.»
«Siete qui per aiutarmi? Allora datemi le gocce.»
«Non va bene abusare dei farmaci. Fai dei lunghi respiri.»
«Io la distruggo questa comunità di merda.»
Lello rovescia una sedia e bestemmia.

«Che mi dovete dire sempre? Se è per la bottiglietta di vodka, l’ho comprata per voi.»
«Poi parleremo anche della tua vodka,» dice Margherita
«E allora di che cosa mi dovete parlare?»
«Sono trascorsi tre anni da quando abbiamo deciso di ospitarti. Abbiamo avuto diverse richieste dai comuni che si sono interessati per la sistemazione di due ragazze che presto arriveranno da noi. A settembre dovremo accoglierle.»
«In poche parole non possiamo più ospitarti. Devi lasciare il tuo posto ad altri tuoi coetanei» taglia corto Maurizio.
«E io dove me ne andrò? Ci avete pensato?»
«Angela ha contattato una comunità di Brescia.»
«Brescia?» ripete Frosio. «Ma state scherzando?»
«Siamo serissimi. Le regole però, mio caro Frosio, sono più rigide. Imparerai ad adattarti e a non fare sempre il cazzo che vuoi. Dovrai lavorare per guadagnare i soldi per le sigarette, non potrai uscire se non negli spazi comunitari, potrai usufruire solo dei loro negozi, hai diritto a una sola telefonata a settimana e…»
«Basta così, non andare avanti.» Frosio interrompe l’elenco di Margherita. «Proprio un bel posto di merda mi avete scelto. Devo ringraziare te, Angela?»
«Può essere una nuova esperienza. Non giudicare subito la tua nuova sistemazione senza neanche averla vista.» Angela si sente in colpa e non sa essere convincente come vorrebbe.
«Vi siete rotti le palle di tenermi e mi mandate in un carcere. Sono stufo di sentire certe stronzate.»
«Anche volendo non puoi rimanere qui,» dice Maurizio. «Fattene una ragione.»
«Stappate pure la mia bottiglia di vodka, quando me ne andrò via. Festeggiate pure.»
Frosio non si è portato nessun libro con sé. La bella notizia gli avrebbe rovinato la lettura.

Avevo chiesto a Luca di accompagnarmi dal ferramenta. Non sapevo ancora quando sarebbe arrivato il mio inquilino, ma presto o tardi che fosse, avrebbe avuto bisogno di un duplicato delle chiavi di casa. Ci sbrigammo in una decina di minuti. Poi toccò a me accompagnarlo in biblioteca.
Nell’area bambini, riconobbi una ragazza a cui davo ripetizioni di matematica. Stava leggendo un libro di favole a una classe di scuola elementare. Caratterizzava ogni personaggio della storia con una voce diversa. Svolgeva anche lei il servizio civile.
Luca si infilò nella sezione di narrativa. Io lessi l’incipit di ogni libro che prendevo dallo scaffale. Nessuno di quelli che avevo in mano mi invogliò a proseguire oltre la prima pagina. Luca invece sfogliava con difficoltà un tomo voluminoso intitolato I miti di Chtulhu.
Il pomeriggio lo passai sul divano a inventare scuse plausibili per non presentarmi sabato sera da Sid Vicious. Magari avrei potuto invitare Angela. Mi chiesi se le sarebbero piaciuti i miei amici. Mi appisolai senza trovare nulla di convincente.
Mi svegliò una telefonata.
«Pronto, Gabriele?» Era Margherita.
«Sì?» Mi alzai dal divano. Avevo un cerchio alla testa.
«Per qualche giorno è meglio che non vieni in comunità. Ti avviso io, quando puoi riprendere.»
«Ah, va bene. Ma come mai?»
Mi chiesi se qualcuno tra gli operatori avesse sollevato perplessità sulla mia breve permanenza.
Non ricevetti risposta.
«Pronto?»
«Maurizio, ce l’hai presente? Oggi doveva accompagnare i ragazzi a fare una scampagnata.»
«Me lo ricordo,» dissi.
«Ha avuto un incidente. È caduto in un fossato.»
«E ora come sta?»
«È morto.»
Non ero sicuro di essermi svegliato del tutto.
«Morto?» ripetei.
Dopo aver riattaccato, andai in bagno a lavarmi la faccia.

 

 

Sesta montagna

«Muoviti Jenny, che tra dieci minuti hai il pullman.»

«Uffa! Perché Lello può starsene in comunità a dormire, e io invece devo andare a scuola? Non ho voglia.»

Jenny sbatte la porta e ritorna a letto.

«Non va bene così! Lui ha finito le medie perlomeno. Tutti i giorni è sempre la stessa storia.»

«Mi hai rotto i coglioni.» risponde Jenny con un’espressione cara a Frosio.

Marzia spalanca la porta.

«E no, cara mia, adesso ti vesti e vai a scuola.»

La ragazza pianta i piedi a terra, si aggrappa a uno stipite, poi alla maniglia. Ma quando l’operatrice la trascina a forza in cucina, scivola sul pavimento come una giocatrice di hockey.

«Se non ti muovi, ti ci porto io a scuola. A calci nel culo.»

Le urla di Marzia entrano nel sogno di Frosio, seduto su un treno fermo in mezzo alla pianura. Fuori dal finestrino una ragazza con la salopette è preda dei bracconieri. Scalcia, raglia e piange. Ha un corpo di daino, rossiccio e maculato. Le zampe sono d’anatra.

«Hai dieci minuti per fare colazione e metterti qualcosa addosso,» dice Marzia. «Nove minuti e trenta secondi, per l’esattezza.»

Frosio è in accappatoio e ciabatte. Apre il frigorifero e prende un panetto di burro. Canticchia When the saints go marching in, sotto lo sguardo divertito di Lello. Imburra una fetta di pane e gli versa sopra una goccia d’olio. La sua merenda è pronta.

«Oh Lord I want to be in that number.» Non si cura della presenza di Lello in cucina. «When the saints go marching in.»

«Che bravo,» dice Lello e gli batte le mani. «Potresti andare a Sanremo.»

Frosio non ha voglia di rispondergli con la bocca piena. Aspetta l’ultimo morso.

«Certo che fai schifo Lello,» gli dice.

«Stronzo,» sorride. «Perché faccio schifo?»

«Ma non te ne rendi conto da solo?» infierisce. «Appena puoi ti metti a letto, sembri un pensionato. Non fai niente da mattina a sera. Fumi, bestemmi e fai cazzate.»

«Grazie.» Lello lo prende come un complimento.

«Non sto scherzando. Vuoi continuare così a lungo?»

«Tutti qua dentro fumano, bestemmiano e fanno cazzate. Mi sembri la mia assistente sociale.»

Frosio riapre il frigorifero e tira fuori il latte. Non sa se berlo direttamente dal cartone o versalo in un bicchiere.

«Sì, ma almeno gli altri vanno a scuola, impiegano la giornata.»

«Che palle che sei.»

Lello preferiva sentirlo canticchiare.

«Sai dire solo: “Viva la mafia! Viva la mafia!”. Non sai neanche cos’è.»

«Non è vero.»

«Ma che cazzo ne sai tu della mafia?»

«E invece ne so.»

Frosio avvista una tazza pulita nel lavandino.

«Guarda che mi preoccupo per te.»

«Diego Frosio che si preoccupa per me? Non ci credo…»

Steve è stato il primo. Il suo è un talento che non sa di possedere. Eppure è visibile a tutti. Come una voglia di vino che ci si porta addosso dalla nascita, o un’escrescenza spuntata dal nulla.

Le formiche corrono più veloci quando la pressione è in aumento. Le gazze gracchiano e sbattono forte le ali per annunciare la pioggia.

Ma lasciamo agli animali le previsioni del tempo.

Steve capta il segnale. Il corpo lo trasmette alle sue frequenze.

Due colpi in fronte.

Uno dietro all’orecchio.

L’ultimo sui genitali.

Lady Ops” suona meglio di “Cicciona di merda”.

Il soprannome è un’idea di Margherita. Ha riscontrato un immediato successo, specialmente tra gli operatori. A scuola no, continuano con il vecchio. Mentre per i ragazzi della comunità è Sandra. In verità, la chiamano “Lady Ops” solo se fa una cazzata e “Cicciona di merda” solo se fa una grossa cazzata.

Lei non vorrebbe avere soprannomi, anche se trova grazioso“Lady Ops” (l’ha riciclato per il suo indirizzo mail). Detesta persino il suo di nome. Sandra. Non è il diminutivo di Alessandra. In quel caso, sarebbe stato abbreviato in “Ale” e l’avrebbe sopportato meglio. Ma il punto è un altro.

Non vorrebbe essere chiamata in nessun modo. Non vorrebbe avere un nome.

Vorrebbe però che qualcuno si accorgesse di lei, come di una qualunque e anonima lucertola entrata in casa. Quando trascorreva l’estate in campagna, succedeva spesso di vedere i nonni indossare i guanti da lavoro, perché le lucertole mordicchiano, e di raccoglierne una spaventata e riportarla in giardino.

Sandra è entrata in comunità allo stesso modo, ma nessuno ha le stesse premure dei suoi nonni.

Berto va avanti e indietro per il salone. Finché Lello non gli si para davanti per impedirgli ogni via di fuga.

«Dove vuoi andare?Dillo a Lello.»

Berto ride e si fa largo, ma non riesce a scansare il compagno di stanza.

«Dai, vieni a fumare una sigaretta con me. Vedrai che ti sentirai meglio.» Lello gli mostra il pacchetto di Camel.

Berto usa la testa come un ariete da sfondamento.

Lello fa fuoco con l’accendino e avvicina la fiamma ai capelli di Berto.

«Ohh,» si lamenta. Prova ad afferrare l’accendino, ma Lello lo nasconde dietro la schiena. Poi glielo agita davanti agli occhi.

Dove si potrebbe aprire una fumetteria? A Rio Guado non ce ne sono. E forse non se ne sente nemmeno l’esigenza. D’altra parte, se nella nostra cittadina c’è una libreria esoterica, perché non dovrebbe trovare posto una rivendita di manga?

Frosio sa già come allestire il suo negozio. Il bancone se lo immagina all’entrata, sulla sinistra, vicino alla teca delle Action Figure. Gli albi Marvel e DC Comics sono sopra gli scaffali, dentro ai contenitori per i vinili. L’espositore delle nuove uscite deve occupare una parete. Ipotizza almeno tre sezioni tematiche: fumetto giapponese, italiano e franco-belga, e graphic novel. In un locale a parte, saranno messi a disposizione dei tavoli per leggere i fumetti e giocare a Magic o a Dungeons & Dragons. Non può mancare un distributore automatico di caffè e bevande.

«E con che soldi?»

Le obiezioni di Margherita frenano l’entusiasmo di Frosio.

Steve è stato il primo. Subito dopo è arrivato Berto. La perseveranza è importante quanto il talento.

Nel suo andirivieni tra il salone e camera sua, deve aver percepito qualcosa di insolito. Un mormorio. Un fruscio nell’erba. Un gioco di ombre. Un odore più intenso del muschio e della menta. Nota una macchia sul muro e si chiede se c’è sempre stata e come mai non se ne è accorto prima. Un rumore proveniente dalla cucina lo sveglia di soprassalto.

Berto sta in guardia. Non è dell’umore per leggere le vignette umoristiche della Settimana Enigmistica insieme a Luisa. Va avanti e indietro. Gira su se stesso. Digrigna i denti.

Quando si sente pronto, esce in giardino.

«Non farti vedere,» la riprende Frosio. «E non dire “Ops” o ti mollo un ceffone

Sandra non è una lucertola, ma condivide un giardino con i ragazzi della comunità.

«Ops!» lo istiga. «Scusa, volevo dire: Ooops.»

«Cicciona,» le risponde. Scusa, anzi, ops… Volevo dire: mangiona. Mangiona si può dire.»

Lello ride.

«Sei un idiota.»

Frosio le soffia il fumo in faccia.

«Piantala.»

Anche Sandra ci prova, ma le esce una nuvoletta.

«Non sai neanche fumare,» dice Frosio. «Tieni tutto in bocca senza mandare giù.»

«Dovresti fare lo stesso con il cibo,» sghignazza Lello. «A quest’ora, peseresti la metà.»

«Siete dei deficienti.» Sandra non si scompone. Fa la superiore. «E io che continuo a darvi retta.»

«Incomincia a non scroccarci più sigarette,» le rinfaccia Lello.

«Questa l’ho rubata a Margherita.»

Frosio guarda verso la porta del giardino.

«Merda,»

«Che succede?»

«Buttate le sigarette, sta arrivando Maurizio.»

Frosio non riesce a procurarsi una sigaretta da nessuno. Ruba qualche moneta dall’infermeria ed esce dalla finestra per comprarsi almeno un pacchetto da dieci. Jenny e Sandra sono solo delle scroccone. Lello invece è a colloquio con la sua assistente sociale. Si dimostra inutile quando serve.

Tornato dal tabaccaio, Frosio si stende a letto e si accende una Pall Mall. Ha letto da qualche parte che era la marca di sigarette che fumava Jim Morrison. Sul cantante dei Doors, sa che non aveva una dimora fissa e vagabondava per infimi alberghi. Quando era iscritto alla facoltà di cinematografia, viveva sul tetto di un palazzo e aveva sparso la voce di essere orfano.

«Diego,» Marzia bussa alla porta di camera sua. «Margherita ti deve parlare.»

Non è il solito colloquio individuale a cadenza mensile.

«Non ho voglia. Più tardi.» Lancia il mozzicone della sigaretta per la strada.

Margherita pretenderà delle spiegazioni in merito alla bottiglia di vodka. Frosio non la trova più nell’armadio.

«Vieni fuori sì o no?» Marzia perde la pazienza. Una raffica di colpi si abbatte sulla porta.

«Brava, buttala giù. Testa di cazzo.»

Frosio esce, prima che entri Marzia e senta odore di sigaretta.

«Non permetterti mai più di insultarmi,» lo avvisa. «Oggi non mangi con noi. Resti in camera tua. E dopo cena sparecchi tu.»

«Sbraiti e butti giù le porte. Sei peggio di Lello.»

«Muoviti. Margherita ti sta aspettando.»

«Vado, vado. Sei pazza però.»

«Ti arriva un ceffone! Stai attento.»

Jenny ha in mano un taglierino. È assorbita dai suoi pensieri. Non si accorge di toccare la punta della lama con il polpastrello. Non si accorge nemmeno di sanguinare.

A scuola, c’è un ragazzo che le piace. Ha preso il voto più alto nella verifica di scienze. All’inizio dell’anno, era gentile anche con lei. Non voleva mai indietro i fogli protocollo e le mine della matita a scatto.

Jenny può sentirlo quando gli insegnanti gli dicono di parlare a voce più alta. Non è per tutte le orecchie, la sua voce bassa e rauca.

I suoi occhi invece cambiano colore alla luce del sole. Ieri però non erano nocciola e non erano verdi. Colpa dei suoi amici che prendevano a calci lo zaino di Jenny al coro di «Scimmia, raddrizzati i denti». Lui non si è unito a quelle bestie, ma non è intervenuto per difenderla.

Ironia della sorta, la madre di Sandra ha un fisico mozzafiato. Lavora in un night come ragazza immagine. A maggio compirà quarant’anni ed è stufa di farsi offrire da bere dagli uomini e di ballare con loro nei privé. Chi paga non si accontenta di uno spogliarello e di una palpata di tette. In primavera, potrebbe aiutare il fratello a gestire un negozio di abbigliamento.

Sandra racconta che sua madre è un’ex tossicodipendente, come quella di Jenny. Ma a scuola tutti sanno che non è vero. Gli altri genitori la chiamano “La showgirl”.

Un suo compagno di classe ha preso una nota per una battuta, ma ne è valsa la pena: «Ma è vero che tua madre lavora in un circo? Lei fa la domatrice di leoni e tu la donna cannone.»

«Sì, e tu sei la donna barbuta,» ha replicato senza successo. Stavano tutti ridendo per“la donna cannone” e per il presunto lavoro della madre al circo.

Ovviamente nessuno ci ha creduto. Steve non poteva misurarselo senza nemmeno un righello. È stato beccato a spremersi il pisello in bagno e si è giustificato con la prima panzana che gli è venuta in mente.

«Che schifo,» gli dice Jenny. «Queste cose falle la sera sotto le lenzuola.»

«Ma dimmi una cosa, Segaiolo, pensavi a Jenny o a Sandra?» gli chiede Lello.

«Che sfigato,» commenta Frosio. «Io le seghe me le faccio fare dalle tipe.»

«Da chi? Da Jenny o da Sandra?» insiste Lello.

«Ho detto “tipe”,» puntualizza Frosio.

Uno dei giochi di gruppo dei ragazzi consiste nel redigere un report più o meno attendibile sulle abitudini di Steve.

Martedì 18 gennaio

NUMERO DI PIPPE: 2 o 3

RICHIAMO DELLA MONTAGNA:

Ore 14:43 Intenso

Ore 15:30 Media intensità

Ore 16:08 Lieve

Ore 17:00 Media intensità

Ore 18:05 Intenso

Ore 20:55 Intenso

Ore 21:13 Moderato

C’è un posto libero sull’autobus scolastico. Jenny lo occupa con lo zaino. Il ragazzo che le piace si aggrappa ai sostegni. Non ha intenzione di sedersi accanto a lei, ma ha qualcosa da dirle.

«Mi aiuti a vincere una scommessa?»

Jenny va in confusione. Le sembra di non vedere bene.

«Che scommessa?» Le esce una voce stridula, meno metallica del solito.

«Devo bere tutta questa bottiglia di tè. Ma da solo non ce la faccio. Ho tempo fino a quando arriviamo alla fermata.»

Anche se ha mangiato una barretta di cioccolato bianco, non ha molta sete. Ma per il ragazzo che le piace si disidrata volentieri.

Accetta di aiutarlo. Beve una sorsata. È calda e salata. Il sapore è disgustoso.

Sputa il tè sul sedile. Non ha pensato che poteva essere urina.

L’autista chiede cosa stia succedendo nelle ultime file.

«Se apri bocca, ti faccio male,» la spaventa un amico del ragazzo che le piace.

Per colpa di quello stupido scherzo, la Scimmia è diventata Quella che beve la piscia.

Non c’è un suo coetaneo in paese che non lo sappia.

«Ma si dice “urina” o “orina”?»

«A parte gli scherzi, è buona?»

«Ti manca solo la merda, e sei a posto.»

Jenny scorre la lama del taglierino.

Il libro di scienze ha solo una macchiolina rossa su una colonna bianca. Gli appunti si leggono ancora.

Jenny si succhia il dito. Si guarda il braccio. All’esame del sangue, l’infermiera fatica sempre a trovarle le vene.

L’insegnante continua a interrompere Steve per commentare ogni parola della sua esposizione: «Potresti almeno pronunciare bene “made in Japan”.» Oppure: «È da quindici minuti che ci giri intorno.»

Steve ha sotto al naso la verifica della scorsa settimana, così può rendersi conto dei sei suoi errori e di quanto sono grossolani.

«Come pensi di sopravvivere alle superiori con una preparazione così scarsa?»

Steve fissa una faccia che si contrae sempre di più, sperando quasi di trovare, tra una ruga e una fossetta, il modo per aggirare la domanda.

«Ha ragione,» dice in automatico. La mano gli trema.

«Lo so che ho ragione. Non devi dirmelo tu!»

Steve farfuglia delle scuse. Si sforza di nascondere un sorriso che gli spunta sulle labbra senza motivo. Non vede l’ora di alzarsi dalla sedia per completare il rito.

«Se provi a fare il tuo balletto, non entri più in classe.» lo ammonisce. Ma le sue parole non hanno nessun potere inibitorio.

Due colpi in fronte.

Uno dietro all’orecchio.

L’ultimo sui genitali.

«Finiamola qui,» dice l’insegnante. Segna l’insufficienza sul registro e manda Steve a posto.

Frosio vuole sapere come finisce I pirati della Malesia. Gli mancano poche pagine, quando viene chiamato a quell’inutile riunione utenti e operatori. È già trascorso un mese dall’ultima.

«Interessa anche a te quello che stiamo dicendo» le dice Margherita

«Sto ascoltando,» ribatte.

«È questione di educazione. Vedi qualcun altro che legge?»

«D’accordo la smetto. Sentiamo cosa avete da dire.»

«Si sta parlando di Jenny che fa storie per andare a scuola.»

«Ecco, vedi di piantarla, Bertuccia, che oggi mi hai svegliato. Hai rotto i coglioni.»

«Piantala Frosio! Non chiamarmi…» Jenny ha un nodo in gola.

«E ora di finirla. Marzia non ce la fa più a sopportarti,» prosegue Margherita.«Basta con le scenate, intesi?»

Jenny annuisce e trattiene le lacrime.

«Posso fare un intervento sulle condizioni del bagno dei maschi?» chiede la parola Maurizio.

«Ne hai facoltà.»

«Cari miei maschietti, non sapete neanche farla dentro. Il pavimento è tutto sporco di piscio. E tu Steve, quando ti tocchi, pulisci almeno.»

Steve arrossisce.

«Ciao Segaiolo,» gli dice Lello. Le ragazze ridono.

Marzia mantiene le braccia conserte. Ora è il turno di Ares.

«Tra poco riprendiamo a coltivare l’orto. Siete contenti?»

«Che palle,» sbuffa Sandra.

«A me piace invece.» Jenny si è ripresa.

«Ma se l’hanno scorso non sei mai voluta venire,» le fa notare Ares.

«Ma quest’anno è diverso.»

Sì, quest’anno è diverso. C’è da scommetterci.

Berto è in giardino. Scava una buca con la paletta del ghiacciolo. Non sposta molta terra. È ancora umida. Il solletico è piacevole.

Un lombrico emerge dal suolo. Ares dice che i lombrichi sono dei fertilizzanti naturali.

«Sono nervoso.»

Lello vaga per il salone e tira calci al divano. Vuole le sue gocce per dormire.

«Che succede?» Angela lo segue. «Le hai già prese mezz’ora fa. Non possiamo dartene altre. Ma se hai bisogno di parlare, ti ascolto.»

«No, non voglio parlare. Sono solo nervoso. Se prendo le gocce, mi sentirò meglio. Mi conosco.»

«Ma cosa ti rende così nervoso?»

«Sono cazzi miei, va bene.»

«Su Lello, siamo qui tutti per aiutarti.»

«Siete qui per aiutarmi? Allora datemi le gocce.»

«Non va bene abusare dei farmaci. Fai dei lunghi respiri.»

«Io la distruggo questa comunità di merda.»

Lello rovescia una sedia e bestemmia.

«Che mi dovete dire sempre? Se è per la bottiglietta di vodka l’ho comprata per voi.»

«Poi parleremo anche di quello,» dice Margherita

«E allora di che cosa mi dovete parlare?»

«Sono trascorsi tre anni da quando abbiamo deciso di ospitarti. Abbiamo avuto diverse richieste dai comuni che si sono interessati per la sistemazione di due ragazze che presto arriveranno da noi. A settembre dovremo accoglierle.»

«In poche parole non possiamo più ospitarti. Devi lasciare il tuo posto ad altri tuoi coetanei» taglia corto Maurizio.

«E io dove me ne andrò? Ci avete pensato?»

«Angela ha contattato una comunità di Brescia.»

«Brescia?» ripete Frosio. «Ma state scherzando?»

«Siamo serissimi. Le regole però, mio caro Frosio, sono più rigide. Imparerai ad adattarti e a non fare sempre il cazzo che vuoi. Dovrai lavorare per guadagnare i soldi per le sigarette, non puoi uscire se non negli spazi comunitari, potrai usufruire solo dei loro negozi, hai diritto a una sola telefonata a settimana e…»

«Basta così, non andare avanti.» Frosio interrompe l’elencazione di Margherita. «Proprio un bel posto di merda mi avete scelto. Devo ringraziare te, Angela?»

«Può essere una nuova esperienza. Non giudicare subito la tua nuova sistemazione senza neanche averla vista.» Angela si sente in colpa e non sa essere convincente come vorrebbe.

«Vi siete rotti le palle di tenermi e mi mandate in un carcere. Sono stufo di sentire certe stronzate.»

«Anche volendo non puoi rimanere qui,» dice Maurizio. «Fattene una ragione.»

«Stappate pure la mia bottiglia di vodka, quando me ne andrò via. Festeggiate pure.»

Frosio non si è portato nessun libro con sé. La bella notizia gli avrebbe rovinato la lettura.

Avevo chiesto a Luca di accompagnarmi dal ferramenta. Non sapevo ancora quando sarebbe arrivato il mio inquilino, ma presto o tardi che fosse, avrebbe avuto bisogno di un duplicato delle chiavi di casa. Ci sbrigammo in una decina di minuti. Poi toccò a me accompagnarlo in biblioteca.

Nell’area bambini, riconobbi una ragazza a cui davo ripetizioni di matematica. Stava leggendo un libro di favole a una classe di scuola elementare. Caratterizzava ogni personaggio della storia con una voce diversa. Svolgeva anche lei il servizio civile.

Luca si infilò nella sezione di narrativa. Io lessi l’incipit di ogni libro che prendevo dallo scaffale. Nessuno di quelli che avevo in mano mi invogliò a proseguire oltre la prima pagina. Luca invece sfogliava con difficoltà un tomo voluminoso intitolato I miti di Chtulhu.

Il pomeriggio lo passai sul divano a inventare scuse plausibili per non presentarmi sabato sera da Sid Vicious. Magari avrei potuto invitare Angela. Mi chiesi se le sarebbero piaciuti i miei amici. Mi appisolai senza trovare nulla di convincente.

Mi svegliò una telefonata.

«Pronto, Gabriele?» Era Margherita.

«Sì?» Mi alzai dal divano. Avevo un cerchio alla testa.

«Per qualche giorno è meglio che non vieni in comunità. Ti avviso io, quando puoi riprendere.»

«Ah, va bene. Ma come mai?»

Mi chiesi se qualcuno tra gli operatori avesse sollevato perplessità sulla mia breve permanenza.

Non ricevetti risposta.

«Pronto?»

«Maurizio, ce l’hai presente? Oggi doveva accompagnare i ragazzi a fare una scampagnata.»

«Me lo ricordo,» dissi.

«Ha avuto un incidente. È caduto in un fossato.»

«E ora come sta?»

«È morto.»

Non ero sicuro di essere svegliato del tutto.

«Morto?» ripetei.

Dopo aver riattaccato, andai in bagno a lavarmi la faccia.

Quarta montagna

«Tu sei quello nuovo?»
Frosio è in comunità da cinque anni. Ne ha visti di ragazzi passare. Ma non è sua abitudine organizzare comitati di accoglienza. Ci tiene invece a mettere in chiaro le cose. È lui che comanda. Non avrà vita facile, chi alza la cresta.
Luca ha tutta l’aria di essere un tipo sveglio. Non come i ritardati domiciliati qua dentro. Con lui non servono tante raccomandazioni.
«Qui sono io il capo, se hai bisogno di qualcosa chiedi a me.»
Lo conduce in camera sua per mostragli la collezione di fumetti. Un ripiano della libreria si sta incurvando, ma regge comunque gli albi di Topolino, i numeri di Dylan Dog e Satanik. Ci sono intere collane che Luca conosce solo di nome. Pochi romanzi. La maggior parte è di Salgari.
«Anch’io sono un appassionato di fumetti,» gli dice Luca. «Hai mai letto John Doe?»
«Sicuro.» Frosio glielo dimostra. Sfila dalla libreria un volumetto intitolato Gli avvoltoi hanno fame. Lo rimette al suo posto e ne sceglie con cura una decina tra i più disparati della sua collezione.
«Leggi questi, se di mattina non sai cosa fare.» Ma lo avverte: «Però non entrare mai in camera mia. Chiedimeli sempre la sera prima. Quanti ne vuoi. E io te li presto.»
A un angolo della libreria c’è una cornice. È la foto di un uomo con i baffi accanto a un aeroplano. Ha in braccio un bambino. Luca suppone che sia il padre di Frosio.
«Ti va un bicchiere di vodka?» Frosio tira fuori una bottiglia dall’armadio.
«No, ti ringrazio,» declina l’invito. «Prendo dei farmaci. Non posso bere alcolici.»
«Io non li ho mai presi e mai li prenderò. Quella roba è veleno.»
Luca non commenta. Sta guardando le copertine dei fumetti che gli ha selezionato Frosio.
«Vieni in giardino,» gli dice. «Ti mostro la cosa più straordinaria che abbia mai visto in vita mia.»

Mi seccava entrare in comunità senza annunciarmi. Del resto, il citofono, se non aveva assunto il rango di opera d’arte concettuale, era puramente decorativo. Mi assicurai di non chiudermi il cancello alle spalle, ma di lasciarlo accostato. In compenso, non avrei dovuto nemmeno sfiorare la tenda bluastra, arrotolata su un lato del baldacchino da una stringa delle scarpe.
«Ripetilo ancora, ma questa volta non guardare il libro.»
Al tavolo della cucina, una ragazza studiava insieme a un’operatrice.
«L’erosione è una fase del processo siedi… cioè, sedimentario che… ma posso non dire sedimentario? Dico solo: è un processo che causa la deportazione di frammenti di roccia.» La sua voce usciva metallica. Poteva trattarsi di un disturbo uditivo, pensai. Ma nessun apparecchio acustico spuntava sopra l’orecchio della ragazza.
«Asportazione, non deportazione,» corresse l’operatrice. Il taglio geometrico del caschetto ne irrigidiva i tratti del viso. «Olga, concentrati. Potresti imparare una parola nuova ogni tanto.»
«Non mi va di studiare a memoria senza capire,» piagnucolò. Aveva gli incisivi accavallati e alcuni denti storti. Se i problemi dentali di Freddy Mercury migliorarono la sua estensione vocale, quelli di Olga non furono così generosi. Immaginai quanto si divertissero gli altri ragazzi a farle il verso.
«Non devi fare il pappagallo. Spiegami cosa succede alle rocce, con la pioggia, con il vento, quando un torrente scorre in mezzo alle montagne eccetera. Come se lo spiegassi a una tua amica.»
Mi diressi verso il salone per rintracciare la direttrice o un operatore libero da impegni. Erano le tre e mezza del pomeriggio e c’era meno movimento in comunità, rispetto alle ore di scuola. I ragazzi erano tutti chiusi nelle loro camerette a fare i compiti?
«Si staccano pezzetti dalla montagna e vengono trasportati via da lì.»
«Una spiegazione da scuola elementare, ma il concetto è quello.»
L’operatrice era su per giù della mia età. Eppure, mi metteva soggezione. Non avrei mai voluto trovarmi nella situazione di ricevere una strigliata da lei, come era successo giovedì scorso a Lello. Lui era stato persino in grado di mandarla a fare in culo.
Dal nulla, mi tornò alla mente la vecchia del film, che schiacciava le erbe mediche con il pestello.
«Perciò con il tempo si accorciano le montagne?»
«Sì, il vento, il mare, la pioggia lentamente le sgretolano.»
«Anche la nostra montagna una volta era più alta?»
«Che stupidaggini.»
«Ma come ha fatto a crescere nel nostro giardino?»
«Olga, domani hai la verifica, non divagare.»
Non compresi a fondo l’ultimo scambio di battute. Non esclusi la possibilità di essere io a soffrire di disturbi all’udito.
La ragazza roteò la testa, seccata dai rimproveri dell’operatrice, e mi notò dietro alla parete di vetro.
«Marzia, c’è qualcuno,» disse con un dito puntato verso di me.
L’operatrice si voltò nella mia direzione, poi ritornò sul libro di Olga e cerchiò con la matita alcune parole: «Sedimentario, detriti e granito. Per il momento queste. Cercale sul dizionario e scrivi la definizione nella colonnina bianca. Tra dieci minuti ti interrogo.» Assegnatele il compito si rivolse a me, ma non si alzò dalla sedia per presentarsi.
«Hai bisogno?» mi chiese. Forse mi aveva scambiato per un passante in cerca di informazioni su come raggiungere lo sportello bancario più vicino.
«Sono Gabriele,» dissi. Ma poiché il mio nome non significava alcunché, aggiunsi: «Del servizio civile.»
«Sì, lo so chi sei,» picchiettò la biro sul tavolo. «Luca è in camera sua.»
«Prima passerei dalla responsabile, se non è un problema. Giovedì aveva un impegno e non ci siamo ancora incontrati di persona.»
«Margherita, intendi? La direttrice? È in infermeria. La porta che vedi in salone.»
Avvertii la mancanza di Angela. I suoi modi mi avevano subito conquistato.
«Ciao Gabriele.» Comparve in cucina la direttrice, accompagnata da un operatore. Si sforzava di mantenersi in equilibrio sui tacchi. «Scusami se settimana scorsa non sono venuta ad accoglierti. Ho avuto un imprevisto.»
«Angela mi ha fatto fare un giro esplorativo,» sponsorizzai la mia collega.
«Ce ne sono di abissi da esplorare qua dentro.»
Marzia sorrise all’osservazione della direttrice. Sembrava un’altra persona.
«Non spaventarlo, che è appena arrivato.»
«Forse avresti preferito compilare dichiarazioni dei redditi. Ma almeno con noi non ti annoierai.» Morsicò la caramella balsamica che stava succhiando.
«Non so se può essergli di conforto.» Anche se ero l’argomento di discussione, Marzia parlava alla direttrice, come se fossi invisibile. Evitava il contatto visivo con me.
«Marzia l’hai già conosciuta,» si sbilanciò con i tacchi. «Questo omone è Maurizio.»
Ci stringemmo la mano.
«L’educatore di Luca?» I suoi baffoni si mossero su e giù. Mi ricordarono quelli del tricheco di Alice nel paese delle meraviglie nella trasposizione animata di Walt Disney. «Ma non sarebbe meglio che affiancasse qualcun altro? Luca è tranquillo, non crea problemi. E poi non se ne vuole andare?»
Al contrario di Marzia, si assicurò di non escludermi dalla conversazione: «Non mi fraintendere, Gabriele, ci servono nuove leve. Quando arriveranno le cinture di contenimento ai letti, ti insegnerò ad allacciarle ai ragazzi più scalmanati. Sei giovane, robusto e mi potrai dare una mano.»
«Maurizio,» la direttrice gli lanciò un’occhiata. «Luca è qui da pochissimo tempo. Si deve ancora abituare. Proprio perché non crea problemi, lo vogliamo mandare via? Non sta soggiornando in un ostello.»
«Sì, ma Luca è qui per sbaglio, diciamoci la verità.» Strinse un sigaretto tra le dita. Gli mancavano solo i guanti scuciti per essere identico al tricheco disneyano.
«Il comune di Rio Guado l’ha assegnato a Gabriele. Che ti piaccia o no,» lo redarguì. «E che ti piaccia o no, l’ospedale non ci manderà strumenti di contenzione fisica.»
«Posso intervenire?» Olga sollevò la testa dal libro.
«Hai finito di studiare il paragrafo?» le domandò Marzia.
«Ho letto e scritto il significato delle parole,» confermò. «Lello fa il bello e il cattivo tempo, mi chiama Bertuccia…»
«Tutti ti chiamano Bertuccia, non solo Lello,» ridacchiò Maurizio.
«Sì, ma fatemi finire,» si impose. «Non si può togliere la libertà agli altri. Io o Lello o Frosio, possiamo avere il nervoso, urlare, lanciare sedie, però non giustifica…»
«Cara mia, è una misura sanitaria,» la interruppe Maurizio.
«Hai passato bene il fine settimana?» mi chiese Margherita. «Basta chiacchiere. E tu, Maurizio, fammi un piacere, vai a chiamare Luca.»
«Ho fatto un po’ di pulizie in casa.» In realtà non era prevista una mia risposta, però l’attenzione era concentrata su di me e non spiaccicavo parola.
«Come ti capisco, in settimana non si ha mai tempo.»
Avevo sistemato la stanza degli ospiti, in attesa dell’arrivo del nipote della mia dirimpettaia. Gli armadi erano pieni di vestiti che non indossavo. Jeans di una taglia sopra la mia, pantaloni della tuta, pantaloncini corti e tutto il cattivo gusto dei miei genitori in fatto di felpe e smanicati. La lampadina del comodino era bruciata. Senza contare che quella stanza ormai fungeva da ripostiglio. Soltanto Sid ci aveva dormito una notte. Si era preso una sbronza cattiva ed era svenuto all’altezza di casa mia.
«Oh, Luca!» La direttrice salutò l’arrivo del mio assistito. «Oggi tu e Gabriele vi fate una bella passeggiata. Hanno aperto una nuova cremeria dopo il ponte. Prendetevi una cioccolata, una crêpe, o un succo all’albicocca.»
«Posso venire anch’io?» si inserì Olga.
«Non se ne parla nemmeno.» Marzia fu categorica. «Oggi ti prepari alla verifica. Devi recuperare un’insufficienza.»
«Uffa,» frignò.
«Olga dobbiamo fare un bel discorso io e te. Non puoi strillare tutte le mattine perché non vuoi andare a scuola. Cos’è questa storia?»
«Se resti in comunità, te li sogni il cinema, la pallavolo, l’orto,» le venne dietro Marzia.
«Tanto mi fanno cagare.»
«Brava,» applaudì Maurizio. «Io non ti faccio mettere piede fuori da camera tua. Come se fossi contagiosa. Non ti mando neanche in giardino, signorina. E ringrazia che l’ospedale non ci manda le catene ai letti.»
«Domani vedi di presentarti per la verifica di scienze. Altrimenti, Maurizio non ti porta a fare la scampagnata.»
«C’è altro?» Non ressi la nuova ramanzina.
«Conserva lo scontrino, che a fine mese ti rimborsiamo.»
«Va bene, allora noi usciamo,» cercai la complicità di Luca, che però era intento a fissare le piastrelle.

Mi ritrovo nudo sotto gli occhi di tutti. Questa sensazione mi accompagnava in qualunque ora precedente il crepuscolo, quando ero fuori per Rio Guado. Di solito, lasciavo casa solo per riempire il frigorifero o comprare le sigarette.
All’idea di imbattermi in un conoscente, le mie gambe si appesantivano e mi trattenevano al marciapiede. Una figura indistinta mi fermava senza badare ai convenevoli. Inclinava la testa per osservare meglio una macchia sul quadro. «Come mai non sei al lavoro?» Ci avrebbe creduto a un guasto alla centralina?
Quando ero praticante mi era capitato per davvero di interrompere il lavoro, perché era saltata la corrente in ufficio. Avevo perso tutti i dati inseriti in un foglio di calcolo. Per risollevarmi l’umore, un collega mi invitò a bere un caffè. In quel periodo, nessuno si sarebbe arrogato il diritto di intromettersi nei miei affari, se mi avesse incrociato al bar in pieno giorno. Mi avrebbe salutato. Mi avrebbe chiesto di portare i suoi saluti a mia nonna. O forse non mi avrebbe nemmeno avvicinato, pur riconoscendomi come il nipote di Lena.
Mentre costeggiavo il fiume con Luca, ebbi una premura nei suoi confronti.
«Luca, vorrei farti una domanda.»
Nonostante le buone intenzioni, la mia richiesta suonava pericolosa.
«Una domanda?»
«Se qualcuno mi chiede di noi, preferisci che ti spacci per un mio cugino?»
Al suo posto, avrei provato imbarazzo a essere presentato come il ragazzo che ha bisogno del sostegno di un educatore.
«Io non sono di queste parti,» mi informò. «Puoi benissimo dire che sei il mio educatore. Non mi cambia nulla.»
«D’accordo.» Non insistetti. Anzi, con il suo permesso, avrei alterato la verità a mio favore. Mi sono reso conto che non desideravo passare i miei giorni seduto su una scrivania. La mia vocazione era un’altra (omettendo ovviamente ogni riferimento al servizio civile).
Arrivati in cremeria, ordinammo due waffle al cacao e due frullati. Lungo la mia cialda si era depositato un lungo capello della cameriera. Lo levai, facendo attenzione a non sporcarmi le dita di cioccolato.
«È la prima volta che mangio un waffle,» disse Luca.
«E ti piace?»
«Buono.»
«Anch’io l’ho scoperto a mia volta, vedendo qualcuno che lo ordinava.»
«L’imitazione è una modalità di apprendimento. È stato uno degli ultimi argomenti, che abbiamo affrontato a scuola, prima del mio ricovero in ospedale.»
«Ti manca la scuola?»
Ritenni prematuro interrogarlo sulla sua esperienza ospedaliera.
«Era il giorno del mio compleanno, quando sono passato in segreteria a ritirarmi. Sempre meglio che risultare bocciato alla fine dell’anno,» ironizzò.
Per me, sarebbe stato umiliante ripetere un anno di superiori. Ero cresciuto con il tormentone di mio padre: O si studia, o si lavora. Alle elementari mi era concesso prendere non meno di B, alle medie non meno di buono, al liceo non meno di 7. Non mi riuscì di incoraggiarlo per forza.
«Mi sono rassegnato,» proseguì. «La direttrice mi ha proposto di frequentare le lezioni in classe come uditore.»
«Pensi sia una buona idea?»
Piantai a metà il frullato, troppo dolce al mio palato, e ordinai dell’acqua minerale.
«In comunità non mi passa più il tempo. Soprattutto la mattina. Sono da solo. Tutti vanno a scuola. Tranne Lello, ma dorme fino a tardi. E Berto, che si aggira tra i corridoi come un fantasma,» si morse il labbro inferiore. «Diciamo che non mi sono opposto.»
«Però non è nemmeno quello che vuoi.»
«Io voglio tornare a casa,» trattenne il magone. «Non sono come gli altri.»
«Infatti, tu hai un percorso più breve.»
«Sì, ma non ce la faccio a rimanere qui fino a luglio,» singhiozzò. «Voglio tornare alla mia vita di tutti i giorni. Alla normalità. Sono stufo di sentirmi diverso dai miei compagni di classe, di essere quello con i problemi.»
Capivo cosa intendeva. Anch’io desideravo riappropriarmi di un vero lavoro, girare per Rio Guado senza nascondermi dalla gente e smetterla di accampare scuse con gli amici. Fui tentato di confessarglielo, per gettare un ponte verso di lui. Ma prevalse l’autorevolezza del mio ruolo. Non sapevo quanto fosse giusto confondermi con la figura di un amico. Non avevo ricevuto nessuna formazione. Ero l’uomo comune dei film, che si ritrova suo malgrado a pilotare un aereo. Magari sarebbe stata Angela a fornirmi le istruzioni dalla torre di controllo.
«Mantieni i contatti con loro?»
«A dicembre mi ha telefonato la rappresentante di classe, suppongo a nome di tutti. Il mio migliore amico mi ha chiesto di non chiamarlo più a casa, perché i suoi genitori non sanno cosa mi sia successo. E per gli altri sono soltanto un banco in meno.»
Una coppietta di fidanzati sui trentacinque anni leggeva le proposte del menu pieghevole delle bevande calde. La donna era spaventata all’idea di non poter andare in Egitto in estate, a causa dei recenti disordini. L’uomo leggeva ad alta voce i vari tipi di tè. Era indeciso tra quello al gusto di ciliegia e cannella o il più tradizionale al limone.
«E vorresti tornare alla vita di tutti i giorni? » Avrei potuto rivolgere la stessa domanda a me stesso. Fu una scorrettezza. «Vorresti tornare a occupare un banco?»
Avevo rigirato le sue parole per farlo cadere in contraddizione.
«Amici che ti voltano le spalle, compagni che si lamentano, perché gli insegnanti ti riservano un trattamento speciale. Sarà circolata la voce che non hai un problema di asma, ma sei stato ricoverato in un ospedale psichiatrico? I migliori ti compatiranno, i peggiori ti staranno alla larga.»
«Ma finché resto in comunità, mi sentirò malato, diverso,» replicò. «I farmaci mi aumentano la sete. A volte, in piena notte allungo una mano verso il comodino per cercare una bottiglietta d’acqua. Non trovo l’acqua, né il comodino. Tasto il muro, ma non c’è traccia del pulsante della luce. E a quel punto mi ricordo dove sono. Perché non posso svegliarmi nel mio letto? O cenare con la mia famiglia? Non è questa la normalità? Perché devo convivere con uno che lancia le sedie per il salotto? Io non ho crisi isteriche, non ho tic, non ho problemi in famiglia. Io sto bene. Sto bene. Ma anche qua dentro, conduco una vita da pensionato. Non vado a scuola, faccio passare il tempo e sono in mezzo a gente problematica. Se me ne andassi dalla comunità, non cambierebbe molto probabilmente, ma sarei con i miei genitori, con i miei fratelli. Sarei a casa mia.»
«Scusami, se sono stato troppo duro,» ritrattai. «Però, prendila come un periodo di convalescenza. Nel fine settimana sei a casa con la tua famiglia e negli altri giorni trascorri del tempo con ragazzi della tua età. Non ti annoierai più, quando potrai andare a scuola, anche se come uditore. Il pomeriggio non fate delle attività tutti insieme?»
«È vero,» disse poco convinto.
«Con chi vai più d’accordo tra i ragazzi?»
«Con Diego Frosio,» guardò per aria, come se dovesse arrivargli dall’alto il suggerimento di un nome di riserva. «Alla fine, è con lui che vado più d’accordo. I nostri caratteri sono agli antipodi, ma ci troviamo bene a parlare insieme. Ci piacciono i fumetti, i libri, ascoltiamo la stessa musica.»
«Ne ho sentito tanto parlare di questo Frosio, ma non ho ancora avuto il piacere di conoscerlo.»
«Oggi andava tatuarsi una tigre sul braccio, ma mi sa che gli hanno fatto storie per l’età. Prima mi ha mandato un messaggio e gli ho scritto che ero alla cremeria con te. È un problema se ci raggiunge?»
«No, no, nessun problema.» Ero curioso di fare la sua conoscenza. «Però come si comporta? Penso alla faccenda dei biglietti da visita.»
«Solo con me può parlare di certi argomenti. In comunità passo per quello intelligente. Non che ci voglia molto, intendiamoci. Non parlo solo a livello culturale. Non credo che racconti a Lello o a Olga di suo padre, del suo sogno di aprire una fumetteria o dell’esistenza degli zombie.»
«Degli zombie?»
«Si è domandato se gli zombie, ma vale anche per Dio o la magia, esistano per il fatto stesso che la nostra mente sia in grado di concepirli.»
«È così che la pensa?»
«Mi ha messo alla prova,» fece una pausa e spostò il portatovaglioli sul tavolo accanto. «La sua domanda era genuina, ma c’è un risvolto. Appunto perché mi ritiene a un livello superiore agli altri ragazzi, sono sotto la sua lente di ingrandimento, mi osserva, mi testa, mi giudica. E ho paura di deludere le sue aspettative. Più o meno, quello che è successo con i biglietti da visita.»
«Tu cosa gli hai detto?» Mi figurai Sid Vicious tormentarsi sull’esistenza degli zombie. Ne sarebbe stato capace. Io mi sarei appellato a San Tommaso e ci avrei riso sopra.
«Mi ha colto impreparato. Non ci avevo mai riflettuto sul serio.» Se ne fece una colpa. «Gli ho spiegato che gli zombie sono una metafora delle nostre paure, che siamo noi o parte di noi. Chi vive come se fosse già morto.»
«I miei complimenti. Se non me la fossi cavata con una battuta sulla salute mentale del mio interlocutore, al tuo posto, avrei balbettato tutto il tempo.» Ero ammirato dalla pronta risposta di Luca.
«Invece Frosio è rimasto perplesso.»
«E perché?»
«Mi ha detto che so tante cose, ma il mio è un sapere di superficie. Ha capito che Lovecraft e Romero li avevo sentiti nominare e basta. La mia risposta è stata più vaga, di come te l’ho riportata.»
«Sei giovanissimo, Luca,» dissi. «Prenditi tutto il tempo che ti serve, per approfondire le tue conoscenze. Mi consiglierai qualche lettura. Uno dei prossimi pomeriggi possiamo andare in biblioteca.»
«All’ultima riunione mensile, Frosio ha portato avanti la sua battaglia per ottenere il permesso di fumare in giardino, senza nascondersi dietro alla montagna. In comunità le sigarette sono bandite.» Non si curò del mio punto di vista. Il suo bisogno di sfogarsi, glielo impediva. «Io non ero ancora arrivato, ma fino a qualche mese prima, c’erano delle regole rigide sull’acquisto dei pacchetti di sigarette, ma ai ragazzi era concesso fumare.»
Luca allungò lo sguardo sulla strada e lo imitai.
«Hai visto Frosio?»
«Mi pareva, ma non è lui.» Riprese poi a parlare da dove si era interrotto. «Io pensavo di starne fuori. Non fumo nemmeno. All’improvviso mi chiede davanti a tutti un mio parere sulla questione. Io cerco di sottrarmi, non essendo parte in causa. Solidarizzavo con i miei compagni, ma di fatto gli operatori sono costretti ad attenersi alle disposizioni. E dopo aver ascoltato quello che avevo da dire, mi ha attaccato. Mi ha dato del qualunquista.»
«I suoi giudizi sono troppo perentori. Non darci peso. Tu sei più riflessivo, più maturo. Forse è per questa ragione, che lo interessi.»
«Davvero?»
«Sì,» risposi. «Secondo me è questo il punto.»
Dopo averlo rassicurato, mi sentivo libero di spostare la conversazione verso altro. Ma il sorriso di Luca rese vano il mio proposito.
«Eccolo, è lui. Sta arrivando,» attirò l’attenzione di Frosio con la mano.
Se Frosio avesse tardato di qualche minuto, gli avrei chiesto spiegazioni su che cosa fosse questa montagna, dove i ragazzi si nascondevano a fumare.

Terza montagna

Luca è al supermercato con Marzia. Avrebbe preferito rimanere in camera sua a leggere i fumetti di Frosio. Ma è sempre meglio che incollare ritagli di giornale su una latta. Le operatrici – bisogna dargliene atto – si ingegnano a trovargli qualcosa da fare tutte le mattine. La donna delle pulizie lo ha iniziato al découpage e non ha risparmiato lodi per le sue decorazioni senza troppe pieghe.
Luca non vede l’ora di riprendere in mano la storia di Primerose. Una casalinga che fantastica sui dépliant delle agenzie di viaggio, mentre aspetta il ritorno di un marito violento. Quelle quattro o cinque pagine al massimo l’hanno subito catturato.
Ora però è occupato a confrontare i prezzi delle scatolette di tonno. I prodotti sugli scaffali non sono gli stessi che espongono i supermercati delle sue zone. La nostalgia di casa si impossessa di lui in qualunque forma.
«Sei di poche parole, non è vero?» osserva Marzia. Non è la prima ad accorgersene. Ares lo stuzzica con battute del tipo: «Almeno non ti si secca la lingua,» oppure «Mi hai rintronato a furia di parlare.»
Soltanto gli operatori danno così importanza ai suoi silenzi. I ragazzi non ci fanno nemmeno caso.

Attraversai la piazza per rincasare. Ormai le bancarelle erano già state smontate. Mi tenni a distanza dai rulli della spazzatrice e dalla frutta spappolata a terra. Ma non riuscii a fare lo stesso con l’odore del pesce, che pervadeva tutta l’area delimitata dai parcheggi a strisce blu.
Al bar dei cinesi, era rimasta soltanto una cameriera in piedi nel dehors. Si godeva il lavaggio delle strade, mentre aspettava che si asciugasse il pavimento. Il proprietario non si curò di lasciare le impronte sul bagnato. Era uscito con la sigaretta accesa e si era messo a fumare appoggiato al cancelletto. Il suo sguardo non era concentrato sulla piazza, come quello della donna, ma sullo schermo del telefonino.
Il netturbino agitò un bancale di legno per far capire al collega a bordo della spazzatrice di invertire la direzione di marcia. Anche se non interferivo con quelle operazioni, smisi di sentirmi d’intralcio solo una volta girato l’angolo.
Il lungo rettilineo di corso Armonia non necessitava dell’intervento della nettezza urbana. Forse perché ero libero di camminare tanto sui sampietrini quanto sull’asfalto, che mi venne in mente Angela. Eppure avevi un’aria così spaesata. Ben due volte era arrivata in mio soccorso e con un ottimo tempismo. In entrambe, me ne stavo fermo impalato a guardarmi intorno. O verso la struttura esterna della comunità. O verso il capannello degli operatori, che confabulavano tra di loro.
I miei nuovi colleghi avevano molti sottintesi, che mi rendevano estraneo al gruppo di lavoro. Parlavano di catene ai letti. Menzionavano ragazzi a cui non sapevo associare i volti. Di tutti i discorsi che avevo orecchiato, intuivo giusto il senso generale, al pari di una lingua straniera appresa a scuola.
Mi dissi che era pur sempre il mio primo giorno di servizio e che non tutti erano stati avvisati del mio arrivo. Senza contare che il comportamento di Lello aveva allarmato gli operatori. Chissà cosa aveva combinato per non poter vedere sua madre nel fine settimana.
Ad ogni modo, appena Angela mi aveva visto da solo in mezzo al salone, si era staccata dal gruppo operatori per raggiungermi e scusarsi del trambusto. Mi aveva ripetuto che i ragazzi erano un po’ nervosi. E mi propose di non presentarmi il giorno dopo, ma di tornare lunedì con la chiavetta del caffè.
Allungai la strada perché avevo voglia di camminare e di esaurire il mio resoconto mentale sulla giornata in comunità. Da Angela e dagli operatori, passai con la mente al mio assistito. Io e Luca saremmo andati d’accordo. Questa era la mia sensazione. Non aveva impiegato molto tempo ad abbassare le difese. La sua psichiatra non si era sbagliata a sostenere che avesse bisogno di una figura non troppo più grande di lui con cui sfogarsi. Frugai nelle tasche per assicurarmi di avere il suo biglietto da visita.
Ero salito sulla gradinata del municipio, quando una Fiat Stilo mi passò accanto e il conducente mi salutò con il braccio fuori dal finestrino.

Non so se Berto e la donna delle pulizie giocassero a Trova le differenze. Di solito chi non è capace di risolvere le parole crociate e i rebus si lancia su quei giochi, dopo aver letto tutte le barzellette.
Ma le mie nuove conoscenze, così come un qualunque osservatore, non avrebbero notato cambiamenti sostanziali tra la casa della mia dirimpettaia e quella di mia nonna. La mia si era impoverita di qualche oggetto religioso, ma ne aveva ancora moltissimi (ormai mi ero rassegnato a condividere la camera da letto con un putto che suona la cetra). Per non parlare delle piastrelle a forma di nido d’ape o delle stoviglie a tema floreale. Se non erano identiche, rispondevano allo stesso gusto nell’arredo.
A me piaceva credere che nell’uno e nell’altro appartamento si aggirasse lo stesso spirito della casa. Da amante dell’ordine e della pulizia quale sono, immaginavo di non aver scatenato troppo la sua ira. E pur non essendo scaramantico, confidavo nella sua protezione.
«Allora come è andata?» mi chiese la mia dirimpettaia. Si era seduta davanti a me, non tanto per fare conversazione, anche se non le mancavano gli argomenti, ma per guardarmi mangiare. Aveva una vera e propria passione per come mordevo il cibo e me lo gustavo. Ormai non mi disturbava più quel suo vizio.
«Che dire… In mezzo a chi fa strani balletti in preda al richiamo della montagna, chi lancia sedie per la casa e chi ride a pessime battute, mi sento meno disagiato di quel che pensavo.»
«Lo so che non è il tuo lavoro,» disse. «Ma in attesa di meglio, ti passa la giornata. Mettila così. Stai in mezzo agli altri, fai qualcosa di utile per i problemi di questi ragazzi. E soprattutto non ti chiudi in casa davanti al computer.»
Dalla mia dirimpettaia, la televisione restava sempre accesa, anche in presenza di ospiti. Io ascoltavo i suoi sforzi per tirarmi su il morale e il pubblico in studio rideva alla battuta di un comico su come Berlusconi avrebbe risolto la situazione politica in Egitto: Dopo aver salvato la nipote dall’arresto, ora gli tocca pure salvare lo zio.
«Ho conosciuto Luca, il ragazzo di cui mi dovrò occupare.» Mi passai la lingua sullo spazio del dente, dove si era conficcato un ciuffo di carne. «È probabile che spesso ci invertiremo i ruoli. Magari per convincerlo a non scappare dalla comunità, lo pagano perché sia lui a occuparsi di me. Penso abbia già tentato di psicanalizzarmi o qualcosa del genere.»
«Eppure, caro mio, nonostante il tuo sarcasmo, secondo me ti sei trovato bene. Non lo vuoi ammettere, ma è così. Ho ragione?»
Non raccolsi la provocazione. Avevamo parlato a sufficienza del mio lavoro. «E a lei, come è andata la giornata?»
«Nemmeno io mi posso lamentare.» In televisione davano la pubblicità. La mia dirimpettaia prese il telecomando e abbassò il volume. «Oggi avevo letteratura francese in università.»
Il pollo mi andò di traverso. Trangugiai un bicchiere d’acqua e risi a colpi di tosse. In realtà è piuttosto frequente vedere servizi al telegiornale dedicati ad anziani che realizzano il sogno di laurearsi. Però detto da lei suonava incredibile, anche se si riferiva all’Università della Terza Età di Rio Guado.
La mia dirimpettaia accolse la mia risata come liberatoria, dopo diverse settimane di tensione. Non se ne risentì, al contrario, era compiaciuta di avermi fatto divertire. L’unica sua preoccupazione era che non soffocassi.
«Ti ringrazio per ricordarmi che ho la quarta elementare,» disse e mi versò dell’ac-qua. Aveva iniziato a settembre a frequentare i corsi e non mi ero ancora abituato a sentirla parlare dell’arte barocca o dello scambio cerimoniale Kula tra le popolazioni delle isole Trobriand.
«E cosa avete studiato?» mi ricomposi.
«Abbiamo letto in classe un racconto di Maupassant. E quello che è capitato a un tale Pierre, non fatico a immaginare che possa capitare un giorno a te.»
«A me?» Mi asciugai la bocca e le mani unte con il tovagliolo. Accettare il suo mezzo pollo del giovedì, significava, come contropartita, dover ascoltare i suoi voli pindarici. La scorsa settimana aveva paragonato il nostro rapporto a quello tra Jessica Fletcher e il nipote Grady. Aveva sviscerato tutti i punti in comune con i due personaggi della Signora in giallo. Ma a mio parere, io e Grady condividevamo la stessa professione e null’altro. E avevo seri dubbi che ci fossero delle somiglianze tra lei e la scrittrice di Cabot Cove.
«Mi correggo, sei proprio la persona giusta per ritrovarti in una situazione del genere. Non saprei se augurartelo o meno.»
Mi chiesi se non fosse un suo modo di vendicarsi.
«Non ci sto capendo niente.»
Di Maupassant avevo letto solo I due amici in una antologia scolastiche delle scuole medie.
«Ho avuto un’intuizione chiamiamola così. Questo Pierre racconta agli amici le circostanze in cui ha conosciuto la moglie. Il titolo per l’appunto è Mia moglie. Una donna graziosa, amabile e perfetta. Pierre è davvero l’ultimo che può lamentarsi della sua vita coniugale. Ma la cosa interessante è che non si è sposato per sua volontà. È stato piuttosto il dio degli ubriachi a scegliere per lui.»
«Brindiamo al dio degli ubriachi.»
Io sbuffavo, ma in fondo era in grado di intrattenermi. Mia nonna perdeva in fretta la pazienza ad ascoltare i suoi discorsi inconcludenti (senza piede né gamba, diceva).
«A proposito, anche noi abbiamo un brindisi da fare! Al tuo nuovo lavoro. Vado a prendere l’idromele.»
Si alzò dalla sedia e raggiunse il frigorifero.
«Ma mi spiega meglio cosa è successo a… Pierre, ha detto?»
Volevo sapere dove sarebbe andata a parare, prima che iniziassero le trasmissione della serata.
«Il buon Pierre non aveva nessuna intenzione di sposarsi. Ma quando partecipa alle nozze del cugino, alza un po’ troppo il gomito. Terminati i festeggiamenti, si trascina barcollando in camera sua, ma sbaglia porta. Si mette a dormire nel letto accanto a quello della figlia di un colonnello. Il mattino dopo viene scoperto e il padre della ragazza vuole bruciargli le cervella.»
«Non è per niente una situazione desiderabile.»
Spostai il piatto e le posate nel lavello.
«Lui è in buona fede, si è trattato di un incidente, colpa dell’alcol, ma non viene creduto.»
«E non sa se augurarmelo o meno? Solo perché ho riso sulla sua giornata in università?» le domandai. Più realisticamente aveva trovato il pretesto, sebbene forzato, per raccontarmi una storia. Se avesse letto Canto di Natale, si sarebbe inventata un altro parallelismo.
«Figurati se mi importa.» disse. «E per uscire dai pasticci, Pierre è costretto a prenderla in moglie.»
«E come finisce?»
«Che dopo tutto non lo rimpiange affatto.»
«Ah!» Che altro potevo dire?
«Non è quello che ti è capitato con il nuovo lavoro?» mi domandò.
«In effetti ho sbagliato porta anch’io, però non mi sono sbronzato. E la figlia del colonnello sarebbe la metafora della comunità? Quanto è contorto tutto ciò?»
«Devo pur passare il tempo,» mi fece notare. «Adesso però brindiamo.»
«Beviamo più che altro. E speriamo di dormire nel letto giusto.»
«Al tuo nuovo lavoro!»
«Alla sua carriera universitaria,» risposi. «Ma non c’era qualcosa di cui doveva parlarmi?»
«Oh! Me ne stavo dimenticando.»
«La letteratura francese rende distratti.»
Lasciammo Pierre al tavolo con gli amici.
«Il servizio civile non è molto remunerativo. Vero?»
La conversazione prese una piega diversa. Spense persino il televisore.
«Alla finanziaria mi pagavano quasi quattro volte di più.»
Già,» commentò. «Avrai dei risparmi da parte, ma credo che ti farebbero comodo un po’ più di soldi. O stai prendendo in considerazione l’idea di tornare dai tuoi?»
«Preferirei fare la fine di Pierre e sposare domani una sconosciuta.»
«Senti Pierre (è un nome che ti si addice), ho una proposta da farti.»
«Sentiamo,» dissi. Mi tremò la voce. Avrei forse rimpianto le sue divagazioni?
«Mio nipote è in cerca di una casa in affitto. Ha dovuto liberare l’appartamento dove viveva prima, perché serviva al proprietario. Ora lo ospita suo padre, ma ha bisogno di un’altra sistemazione temporanea. Sono arrivati al punti di mettersi le mani addosso. Se sei d’accordo, potrebbe dormire nella tua camera degli ospiti.»
«Non sarà un tipo manesco?»
«Niente affatto,» mi rassicurò. «È suo padre che ha perso la pazienza. Ma devo avvisarti che è una persona sgradevole. Confesso che non sono riuscita a prendere fino in fondo le parti di mio nipote. Te ne renderai conto da solo.»
«Con chi diavolo dovrò convivere?» sbottai.
«Non ti sto raccomandando Jack lo squartatore. È solamente antipatico, ma ti assicuro che vi incrocerete poco. Lui passa la maggior parte del tempo in camera sua. Oppure fa lunghi giri in bicicletta.»
Purtroppo aveva toccato una corda sensibile. Mi servivano soldi e non ero nelle condizioni per rifiutare.
«Mi faresti un gran piacere.»
Chissà se nella testa della mia dirimpettaia, le vicende di Pierre fungevano da preambolo necessario per spedirmi in casa suo nipote.
Ci accordammo sul prezzo e salii nel mio appartamento.

«Pronto, Sid… Ti sento a scatti.»
«Gabo? Ora, va meglio? Gabo? Ci sei?»
Sid Vicious non mi aveva concesso molto tempo per rifiutare il suo invito.
«Ora ti sento. Scusa se non ti ho ancora dato la conferma per sabato, ma si trasferisce da me il nipote di una mia vicina di casa e mi ha scombinato i piani,» mentii. Non avevo la minima idea di quando si sarebbe fatto vivo.
«Almeno arrotondi. Ti paga le spese, no?»
«Ma certo,» dissi. «Per sabato, ti dicevo…»
«La nostra bevuta è saltata. Ti chiamavo per questo.»
«Non si fa più?».
«Mi dispiace, Gabo. Non c’è nessuno in circolazione. Adriano e Carnevali vanno a un matrimonio di un loro amico. Lele è fuori con i colleghi. Non ho capito cosa abbia da fare Richy. A questo punto, io vado al cinema con Paola a vedere il documentario su Senna.»
«Fammi sapere se ne vale la pena,» finsi interesse. L’ultima volta che mi trascinarono al cinema fu per il Ritorno del re. Non avevo nemmeno recuperato il secondo film della trilogia del Signore degli anelli.
«Perché non te lo guardi? Al Multisala è in programma tutta la settimana. Tieniti libero sabato prossimo e ne parliamo. Sempre al Diner. Stavolta dovrebbero esserci tutti.»
Ero stato precipitoso ad accampare la scusa del coinquilino.
«Sid, hai notizie di Flora?» buttai lì. «Ripensavo alla nostra compagnia e mi sono ricordato che c’è stato un periodo in cui usciva con noi.»
«Intendi Flora e Chi-ti-deflora?»
«Eh?»
«Dai, Gabo. Era il soprannome che avevamo dato alla vostra accoppiata.»
«Molto divertente.»
«Ma c’è mai stato qualcosa tra di voi?»
Mi pentii di aver riesumato Flora al telefono con Sid.
«Me lo avresti detto, suppongo,» si rispose da solo. «Se non sai niente tu, figurati se ho notizie io. Amico, lasciatelo dire, è un po’ tardi per provarci.»
«Smettila di fare il deficiente. Era solamente una curiosità.»
Sid esigeva la massima serietà, quando si confidava con me o parlava dei fatti suoi. Ma non era disposto a ripagarmi con la stessa moneta.
«In effetti, non l’ho più vista in giro. Non era andata all’estero? In Irlanda, tipo. Londra? O magari in Australia. Aveva intenzione di imparare l’inglese e fare dei lavori stagionali.»
«Sei sicuro?»
«Mi sto confondendo, mi sa. Marta aveva frequentato un corso estivo in Irlanda e si era trasferita. Prima a Minneapolis e dopo in Australia. O era il contrario? Chi era andato a Londra invece?»
Mi ero infilato in un tunnel senza via d’uscita.
«No, Gabo, ti direi delle stronzate. Bisognerebbe sentire… Aveva delle amiche quella lì?»
Gli ingranaggi della sua memoria si erano azionati.
«Niente, Sid?» feci l’ultimo tentativo.
«Magari si è sposata. Vabbè, la smetto con le ipotesi campate per aria. Ma sono pronto a scommettere che non abita più qui.»

Non mi era mai capitato di riflettere troppo sulla mia vita. Potevo avere in testa progetti a medio termine, come studiare con impegno e trovare al più presto un buon lavoro. Da adolescente mi inquietava estraniarmi con pensieri fumosi, che dimostravano lo spessore intellettuale di certi miei amici (almeno questa era la loro pretesa). Chi voleva fare il giro del mondo o abbandonarlo una volta raggiunti i ventisette anni d’età. Chi rifiutava i valori piccolo borghesi e avrebbe vissuto da bohémien. Quando la cicala è stufa di cantare si mette a filosofeggiare sull’esistenza. Mi spiegavo così il senso di disagio provocatomi dall’argomento. Se era Sid Vicious ad affrontarlo, mi saliva anche un po’ d’ansia.
Un pomeriggio d’estate tiravamo a canestro nel campetto sotto casa sua. Volevo sapere da lui, che giocava nella Virtus Rio Guado, se eseguivo correttamente il terzo tempo. Invece di darmi qualche indicazione, mi aveva sottratto il pallone e si era seduto su una gradinata. Mi fece un discorso sconclusionato su quanto si sentiva vicino al modo di ragionare di uno scalpellino del medioevo. «Quell’uomo non sta solamente spaccando un blocco di pietra sotto il sole, ma sta partecipando alla costruzione di una cattedrale.»
Sid sognava di far parte del gruppo di lavoro preposto alla realizzazione di una grande opera. Mesi prima era partito al seguito della facoltà di ingegneria civile per assistere all’inaugurazione del viadotto di Millau. Mi raccontò il suo viaggio incalzato dalle mie domande, senza usare parole d’entusiasmo, se non per lo spezzatino di anguilla servito in albergo. Si limitò a ripetere la versione preimpostata che dava in famiglia. Dati tecnici sui materiali, l’altezza dei piloni e altre caratteristiche di eccezione. Non mi resi conto di quanto fosse rimasto scioccato da quell’esperienza. Ci aveva rimuginato per tutto l’anno accademico, finché i miei rimbalzi sul campo da basket ebbero su di lui l’effetto di un’epifania. Gli sarebbe bastato leggere il proprio nome sul progetto di un’infrastruttura destinata a rimanere nella storia, per essere sicuro di non aver sprecato la sua vita. In veste di tecnico generico o di un qualunque operaio. Dopo la laurea tentò più volte l’esame per entrare nell’ordine degli ingegneri, ma non superò mai le prove scritte.
Mentre Sid si rassegnava alla prospettiva di leggere il proprio nome sulle polizze della compagnia assicurativa dove lavorava, io pensavo alle mie di prospettive. Che cosa avrei combinato da qui a un tempo imprecisato?
C’erano momenti di sconforto nei quali passavo in rassegna amici, ex colleghi, gente con cui ero in contatto. Avevo l’impressione che tutti quanti fossero a conoscenza di una verità a me segreta. E per questa ragione non mi costruivo castelli in aria sulle biografie di Jim Morrison al liceo, non mi godevo una birra con gli amici all’università, non mi fermavo davanti alle vetrine delle agenzie del lavoro se avevo già un contratto. E per questa ragione ero finito in comunità tramite il servizio civile.
Tiravo mezzanotte, mezzanotte e mezza, l’una e oltre. Mi crogiolavo nell’inquietudine. Finché prevaleva la volontà di ribellarmi alla veglia dei miei fantasmi. Era necessario tracciare una linea di demarcazione. Io ora sto dall’altra parte. Non qui, e non insieme a voi. Uscivo allora dalle coperte per eseguire un piccolo gesto insignificante. Caricavo un vecchio orologio, mi lavavo i piedi o cambiavo la maglietta del pigiama. E tornavo ad appoggiare la testa sul cuscino. Io ora sto dall’altra parte.
Dormivo giusto qualche ora. Al mio risveglio, accendevo la televisione e guardavo i film della fascia notturna.
Non seguivo i sottotitoli, In quel genere di film, i dialoghi non costituivano per me un supporto fondamentale alla comprensione.
Quando girai sul terzo canale, uomini e donne bruciavano dentro la buca di una tavola ovale, ovvero la pupilla di un occhio gigantesco. A prima vista, parevano uomini e donne, ma erano bambolotti. O erano uomini e donne diventati bambolotti. Nella scena successiva, un gruppo di iniziati muniti di bastoni saliva su una montagna. Gli occhi mi si chiudevano, mentre ciascuno di loro baciava la mano di un contadino.
Un tonfo sulle scale mi ridestò. Non proveniva dal film, dove una musica rilassante attenuava il rumore prodotto dal mortaio usato da una vecchia. Mi affacciai alla porta con il cuore che mi batteva.
«Che succede?» dissi con un piede in anticamera.
«Ohi! Ohi!»
«Idiota! Non fare rumore,» sussurrò una donna.
Scesi di un piano e ripetei: Che succede?»
La proprietaria del gatto pezzato cercava di sollevare l’uomo a terra.
«Perdona il trambusto,» disse e strattonò l’uomo. «Ha appoggiato male il piede su uno scalino ed è inciampato. So che è molto tardi. Ha staccato cinque minuti fa dal lavoro. Scusaci ancora.»
«Tanto domani posso dormire.»
Allungai un braccio verso il tizio che era stato rimorchiato dalla mia vicina. Riconobbi il paziente del centro psichiatrico con i capelli ingellati e tinti di viola.
«Ti preparerò una torta e ti leggerò il futuro. Promesso!» disse la donna con le mani giunte.
L’uomo si aggrappò a me e ritornò alla posizione verticale.
«Se dovesse capitarmi qualcosa, chiama questo numero,» l’uomo dai capelli viola mi lasciò un foglietto. «Ci penserà lui a portare via il mio corpo.»
Era il secondo biglietto da visita che ricevevo nell’arco delle ultime ventiquattro ore.

Seconda montagna

La direttrice agita una scatola. Dopo dei tentativi a vuoto, si sparpagliano delle caramelle minuscole sopra la sua manoQualcuna cade sul pavimento della sala riunioni.

«Sei qui solo da tre giorni…»

La direttrice mostra il palmo a Luca per condividerle con lui.

Luca ne prende una per cortesia. Le caramelle alla menta hanno un sapore forte, ma le preferisce a quelle alla liquirizia di suo padre.

«Ti ha fatto qualcosa Frosio?»

La direttrice lo invita a prenderne un’altra. Si spazientisce a riporle una alla volta dentro la scatola.

«Quello lì deve darsi una regolata. Non può fare sempre il cazzo che vuole.»

Luca si infila una caramella in bocca e nasconde le altre nel pugno. Ripensa all’ospedale. Non è mai stato bravo a fingere di ingoiare le medicine. Ma questo giochetto gli riesce.

«Siamo in contatto con il liceo di Rio Guado. Abbiamo avanzato la proposta di inserirti in una classe come uditore. Non dovrebbero esserci problemi. Almeno non stai tutto il giorno in comunità, mentre gli altri vanno a scuola.»  

Il sovradosaggio di mentolo la fa inspirare con la bocca. 

«Ci credo che poi ti annoi.»

 

 

Non avevo sbagliato indirizzo. Abito a Rio Guado da quando sono nato e conosco a memoria i nomi delle vie, almeno quanto i re di Roma o le tabelline. Mi era però difficile credere di avere di fronte una comunità e non la casa di un privato cittadino. Anche se di certo non passava inosservata.

La struttura era a tutti gli effetti una villa indipendente. Rientrava nell’itinerario delle mie passeggiate serali con Flora. Dovevo per forza aver mosso un rilievo su come era stata progettata, a meno che non vedessi l’ora di rincasare il prima possibile. Sembrava un cubo a cui erano state appiccicate di prepotenza due colonne in stile dorico. Flora avrebbe riso di una battuta del genere, se non altro per risollevare la conversazione. A volte avevamo così poco da dire che sentivamo solo i nostri passi sull’asfalto.

Una tenda bluastra separava le colonne. Sopra questa specie di baldacchino, si stagliavano due balconi di pietra con pilastri dalle forme sinuose. Greche ornamentali decoravano le finestre. Per il resto, la villa era quasi minimale. Bastava eliminare dal campo visivo le colonne e si riconosceva la villetta di campagna di una coppia di pensionati.

Dalle nostre parti, le case degli anziani sfidano la tenacia dei postini. Sono del tutto sprovviste di citofono e di cassetta delle lettere. Ma il cancello non rimane mai chiuso a chiave. Per entrare bisogna abbassare la maniglia, attraversare il giardino e guardarsi attorno, nel caso penzolasse la cordicella di una campana a muro. Alla peggio si bussa al portone d’ingresso. La comunità era dello stesso avviso. Non so se si può definire “citofono” una scatola con un buco circolare, un tempo destinato al pulsante. Nessuno si era posto il problema di aggiustarlo e di inserire un’etichetta con la scritta Comunità o uno di quei nomi da condominio e case di riposo come Residenza Tulipani.

Nel momento in cui mi decisi ad aprire il cancelletto, sbucò una ragazza da dietro la tenda bluastra. Strusciò la schiena contro una colonna per raggiungere i gradini. Sorrideva. Mi sfuggii il senso di quella contorsione, ma ne apprezzai l’eleganza. Forse temeva di rimanere impigliata nella tenda.

«Non è il posto che sembra, vero?»

Mi domandai per un attimo se appartenesse al gruppo operatori o agli utenti. Ma si rivelò un dubbio infondato. A quell’ora gli adolescenti trascorrono l’intervallo in fila ai distributori di cibo e bevande o in cortile a fumare una sigaretta. E vale anche per chi alloggia in una comunità. Nessuno di loro esce in tailleur ad accogliere il nuovo arrivato del servizio civile.

«Già,» tornai con lo sguardo alla struttura, ma lo distolsi subito. L’operatrice aveva inclinato la testa verso di me. Mi scrutava con l’espressione semiseria dell’insegnante che becca uno studente impreparato ad arrampicarsi sugli specchi.

«Ora che mi ci fai pensare…» completò la mia risposta e rise. «Confessa, lo stavi per dire! Eppure avevi un’aria così spaesata. Ti ho visto dalla finestra.»

Mi aveva spiazzato e risi a mia volta. I suoi modi confidenziali ebbero il merito di aggirare quell’anticamera di formalità e ingessature di quando si fanno le presentazioni. Sospettai però che le fossi familiare in una qualche misura. La nostra differenza di età non ci avrebbe permesso di condividere gli stessi compagni di giochi, ma avremmo potuto frequentare gli stessi ambienti. Provai a figurarmela bambina, come se avessi dei ricordi con lei e risalissero all’infanzia. Una bambina con le guance tonde. Guance che si alzavano e si arrotondavano ancora di più se rideva.

«È la prima volta che visito una comunità,» ammisi. «Per quanto ne so, potrebbero essere indistinguibili da fatiscenti ville di gusto neoclassico. Ma a essere sinceri… Sì, me la immaginavo diversa.»

«L’estate scorsa volevano soggiornare da noi degli escursionisti. Non so che guida turistica si erano portati, ma ci segnalavano come ostello della gioventù.»

«Be’, ne ha tutta l’aria.»

«Dici che avrebbero dovuto insistere di più?» si avvicinò a me e allungo una mano. «Comunque, piacere, io sono Angela. Un giorno potrò dire di svolgere lo stesso lavoro di Anna Freud e Melania Klein. Ma al momento sono una tirocinante in attesa di sostenere l’esame di abilitazione in psicologia.»

«Gabriele, piacere.» Sorvolai sui miei illustri predecessori commercialisti.

«Seguimi che ti faccio da guida e ti presento chi non è andato a scuola.» Scostò la tenda e mi fece passare, poi si riallineò a me. «Purtroppo la direttrice non è potuta venire. Ha un impegno fuori sede. È un peccato. Ci teneva a conoscerti.»

Mantenni la concentrazione sulle parole di Angela. Non volevo aggirami per la casa come su un altro pianeta. A quanto pare, avevo già dato spettacolo all’esterno. Resistetti all’impulso di esaminare un attestato di frequenza incorniciato. Non è il posto che sembra, vero? Non male come saluto di benvenuto.

Gli escursionisti capitati qui per caso non si sarebbero mai accorti di soggiornare in una struttura sanitaria. Avrebbero messo in frigorifero una cassa di birra insieme a un post-it con scritto i propri nomi. Magari avrebbero incluso una frase amichevole: Prendine pure una, ma non farci rimanere senza! Il divano del salone era l’ideale per rilassarsi, stappando una bottiglia dietro l’altra.

Davanti alla porta di una camera, la donna delle pulizie si era fermata a parlare con un utente.

«Così ti hanno tagliato la lingua,» disse la donna.

«Eh… Eh… Lingua no. Non tagliata.» Il ragazzo chinò la testa e fece dei giri su sé stesso. Se fossero stati più ampi, avrei pensato a un’imitazione di zio Paperone in preda al tormento, che camminando scava un solco circolare sul pavimento del deposito.

«Non ho capito, mi vuoi far girare la testa?» Si appoggiò allo spazzolone che portava con sé.

Angela si diresse verso di loro e io le andai dietro.

«Berto! Guarda chi ti ho portato. È l’educatore di Luca, perché non lo saluti?»

Il ragazzo mi guardò di sbieco e continuò a scavare il suo solco. Ora digrignava i denti.

«Se mi fai arrabbiare non leggiamo più insieme le vignette della Settimana Enigmistica,» poi si rivolse verso di me. «Mio marito fa i cruciverba e io leggo le barzellette con lui, anche se oggi ha la luna storta. È vero o no, Berto? Ce ne sono alcune che ci fanno morire dal ridere. Com’era quella che abbiamo letto ieri?»

«Boh,» rispose.

«Come boh! Scommetto che te la ricordi,» gli grattò la pancia per stuzzicarlo, ma lui le allontanò il braccio. «C’erano due dinosauri che fumavano e uno diceva all’altro: “Beh, che male può farci?”. A me fanno impazzire queste freddure.»

«Luisa tu hai capito cos’ha Berto?» chiese Angela.

«Oggi non ha voglia di parlare con nessuno,» rispose la donna. Si infilò le mani nelle tasche del camice da lavoro e tirò fuori un mazzo di chiavi. «Si è svegliato con la luna storta. Ha fatto un disordine in camera sua. Non so che gli ha preso.»

Berto approfittò delle nostre chiacchiere per rifugiarsi in camera sua.

«Hai controllato che i suoi cereali non siano finiti?»

«Ce ne sono ancora tre scatole in dispensa.»

«Ma sono quelli che piacciono a lui?»

«Sono i cereali che mangia di solito. È impossibile confonderli. Hanno un orso disegnato sopra.»

Esistevano ancora quei cereali a forma di barchetta. Erano anni che li avevo banditi dalla mia colazione. Nello spot di fine anni Novanta, un orso in salopette prova a svegliare un bambino a cannonate, senza ottenere risultati. Gli si accende allora una lampadina. Sgranocchia i suoi cereali preferiti e il bambino si sveglia di colpo. Gli partono delle molle dagli occhi ai cui estremi pendono le scatole dei cereali dell’orso. La lingua gli si srotola dalla bocca. Finché il bambino corre in cucina per divorare la sua scodella di cereali. La parte croccante di una colazione completa. Finiva così.

«Allora avrà sentito un antifurto suonare.»

«Non te lo so dire. Quando sono arrivata, non suonava nulla.»

Angela mi afferrò un braccio e rimasi avvolto al suo profumo di miele.

«Ultimamente i ragazzi sono un po’ nervosi.»

«Se sono arrivato in un momentaccio, tolgo il disturbo.»

Per incoraggiarmi mi dissi che se ero riuscito a parlare al telefono con i clienti dello studio di un commercialista, avrei imparato anche a rapportarmi con questi ragazzi.

«Fai come vuoi. Ma ti avverto: non troverai altri ostelli da queste parti,» incalzò Angela.

«Gli hai già raccontato la storia degli escursionisti?» Intervenne anche Luisa. «Meglio non spaventarlo troppo al suo primo giorno di lavoro. E’ vero, però, che i ragazzi sono nervosi. Stamattina Jenny ha avuto una crisi di pianto. Non voleva andare a scuola.»

«Me lo ha detto Marzia. A proposito, dov’è?»

«E’ andata a fare la spesa.»

«Non c’è proprio nessuno, nemmeno tra noi operatori.»

A dire la verità, ero rinfrancato all’idea di non conoscere tutto insieme il gruppo operatori.

«Tra poco inizia il turno di Maurizio.»

«Allora poi te lo presenterò,» mi disse.

«Ti presenteremmo anche Lello.» Luisa spalancò la porta di una camera. «Ma come puoi notare è quasi mezzogiorno ed è ancora a letto. Dormire è la sua attività preferita.»

«Almeno se ne sta tranquillo.»

«Questo è invece l’ufficio del direttore,» mi avvisò. Spinse la porta con lo spazzolone, come se non volesse contaminarsi. «Ci dorme un bel personaggio. Si crede il boss. Quando ieri sono venuta a rifargli il letto, gli ho scovato una bottiglia di limoncello nell’armadio.»

Fui sorpreso dalla quantità di fumetti che era accatastata ovunque nella stanza. Mi lancia sul numero di Alan Ford che parodiava Il conte di Montecristo.  L’avrei letta dall’inizio alla fine, se la donna delle pulizie non mi avesse richiamato all’ordine. «Frosio è molto geloso dei suoi fumetti.» Attenuò il rimprovero con un sorriso. Io guardai l’albo come se non mi capacitassi di averlo tra le mani e lo mollai su un ripiano. Mi ero ripreso da un incantesimo.

Luisa mi infilò in tasca la chiavetta delle macchinette: «Era di un ex operatore. Ma io non ti ho dato niente, intesi?»

«Cosa sono questi favoritismi?» Angela sgranò gli occhi.

«Su non essere gelosa. Bisogna incoraggiarlo.»

Angela incrociò le braccia e finse di essere offesa: «Vorrà dire che mi offrirai il caffè tutte le mattine.»

Stavo per risponderle che non desideravo di meglio, quando una presenza in soggiorno ci distrasse dal nostro teatrino. All’inizio credetti di assistere a una sorta di danza della pioggia. Un ragazzo si dava due colpi in fronte con il palmo della mano. Lo spostava all’altezza dell’orecchio e infine lo avvicinava ai genitali. Ripeté la sequenza di gesti come sopraffatto dalle convulsioni.

«Calmati, Steve. Hai preso la terapia stamattina?» gli chiese Angela.

«Non ti preoccupare Angie. Ancora un paio di colpetti e ho finito» disse e aumentò la velocità dei movimenti.

Dalla stanza dell’utente chiamato Lello provenivano degli sghignazzi. Non vedeva Steve, ma sentiva i suoi piedi sbattere sul pavimento. Avrà assistito a numerose repliche di quello spettacolo, ma doveva trovarlo sempre divertente.

«Non farci caso, Gabriele,» mi disse. «È la montagna che lo chiama.»

«La montagna?» pensai tra me e me.

Steve mi strinse la mano. Si sfiorò la tempia e si ricompose subito. Si sforzò come meglio poteva di tenere a bada il tic.

«Piacere, Steve. Tu sei l’educatore di Luca?»

«Proprio così, mi chiamo Gabriele.»

«Se lo cerchi, lo trovi in camera sua.»

«Ma come mai sei già a casa?» Luisa interruppe le presentazioni.

«Due ore buche. Siamo usciti prima.»

«Vai da lui, prima che ti dia per disperso,» disse Angela. «Mi sa che ti ho fatto perdere tempo,» e bussò al posto mio.

 

 

 

 

La stanza era asettica. Luca non aveva ricreato un ambiente che lasciasse presagire qualche tratto della sua personalità. Sembrava davvero il posto letto di un ostello della gioventù. L’unico elemento decorativo era una cornice raffigurante il castello di Rio Guado. Aveva una macchia di umidità su un angolo, ma non rovinava la stampa, anzi le conferiva un aspetto di antichità, di cimelio ritrovato in soffitta.

Luca si stava mangiucchiando il cappuccio di una penna a sfera. Mentre mi aspettava, aveva scarabocchiato su dei cartoncini, come quando si prende un appunto al telefono. Scoprii che erano dei biglietti da visita. Sotto l’inchiostro rosso, riconobbi le lettere stampate del suo nome. L’indirizzo e il numero di cellulare erano scritti con un font di dimensioni più piccole ed erano stati cancellati meglio.

Luca mi salutò, ma non aggiunse altro. Io non sapevo dove mettermi. Per non stare in piedi, mi sedetti sul fianco del letto. Quando mi accomodai, Luca si girò con la sedia nella mia direzione.

Non era un momento che richiedesse particolare solennità, ma nessuno dei due parlava. Temevo di dire qualche sciocchezza o peggio ancora di ferirlo. Se fossi un dipendente di una struttura ricettiva e lui un ospite insoddisfatto del servizio, avrei trattato sul prezzo o mi sarei prodigato a trovargli una sistemazione migliore. Di certo, nei posti alla buona, come gli ostelli della gioventù, non ci si aspetta queste premure e non si hanno troppe pretese. L’unico consiglio utile per i più esigenti è quello di prenotare un albergo. Ma io dovevo fare in modo che lui rimanesse in comunità.

«Se pasticci i tuoi biglietti da visita, come farai a distribuirli a chi conosci?» ruppi il silenzio.

«Li pasticcio per questo,» rispose.

«Non ti piacciono più?»

«Non mi servono un granché. Me li ha regalati mio padre. Li ha fatti per tutta la famiglia.»

«Ce l’hai con tuo padre?» Mi pentii subito di averlo chiesto. Nel mio lavoro ero abituato a porre domande senza troppi giri di parole. Ma la situazione finanziaria di un cliente non era paragonabile alla situazione esistenziale di un utente di comunità.

«No. Non più di tanto.» Raccolse i biglietti e li dispose sul tavolo in file da tre.  Non mi avrebbe stupito se avesse voluto giocare a una specie di improbabile solitario.

«Diego mi ha chiesto il numero di telefono e io gli ho dato un biglietto da visita. Si è messo a ridere e mi ha mandato a fare in culo.»

Per non sostenere il mio sguardo, si allacciava e si slacciava di continuo il cinturino di gomma del suo orologio. Controllò l’ora, ma di sicuro non avrebbe saputo dirmela.

«Non è stato molto carino da parte sua.» Provai a ipotizzare che cosa avesse generato lo sdegno di Frosio. L’aveva scambiato per un modo di tirarsela?

«Ha ragione. Sono ridicoli. E la cosa più ridicola e che li abbia io. Ho sedici anni, non sono un vecchio.»

«Se fossi un libero professionista, potrei averli anch’io nel portafoglio. E secondo te sono vecchio?» E aggiunsi, sempre in tono scherzoso: «Non dirmi che vuoi tornartene a casa, perché il tuo amico non apprezza i biglietti da visita.» Fui di nuovo inopportuno.

«Non c’entra nulla,» disse senza cogliere la battuta. E fu meglio così.

Non mi restava che chiedergli quale fosse il vero motivo per cui desiderasse abbandonare la comunità. Lui me lo avrebbe detto e io gli avrei spiegato che Adamo ed Eva rimpiansero per il resto dei loro giorni la fuoriuscita dal Paradiso Terreste. E a quel punto si sarebbe convinto a chiudersi in camera sua a scarabocchiare biglietti da visita per un annetto o giù di lì. Io avrei portato a termine con successo il mio compito. Onore e gloria a me e tanti saluti.

«Ma tu perché lavori in comunità?» domandò a bruciapelo. Intendeva cambiare discorso?

«È capitato,» mi uscii. «I miei studi non hanno mai interessato l’educazione o la medicina. In realtà, non so nemmeno come si diventi operatore. Figurati, ho studiato economia. Mi sono messo a lavorare. Ovviamente, non nelle comunità.»

«E cosa facevi?»

Alzò la testa e mi guardò dritto negli occhi. Devo ammettere che mi generò un leggero imbarazzo.

«Ero impiegato in una finanziaria. Poi ho perso il lavoro. Dopo un anno che non combinavo nulla, i miei mi hanno suggerito di fare domanda per il servizio civile.»

Non sapevo nemmeno io perché gli raccontavo i miei fatti personali. Un conto è conquistare la fiducia del proprio assistito, ma spiattellargli i propri fallimenti era davvero poco professionale. Avrei contrariato perfino uno del servizio civile alla sua prima esperienza nel mondo del lavoro.

«Per questo sei venuto qui?»

«Sì. Perciò, mi spiace se non sono la figura più adatta ad aiutarti, soprattutto adesso che la permanenza qui ti va un po’ stretta.»

Rimanemmo in silenzio. Poi aggiunse: «Io credo che preferirei lavorare in una comunità.»

«Senti, ma ce l’hai un biglietto da visita pulito?»

«Perché?»

«Questo non è pasticciato sul retro,» ne indicai uno sparpagliato sulla scrivania. «Ti segno il mio numero di telefono. Se hai voglia di parlare con qualcuno.»

Mi aspettai la stessa risposta che gli aveva dato Frosio alla vista dei suoi bigliettini. E invece rispose: «Ok.»

«La prossima volta che ci vediamo possiamo fare quattro passi, andare al cinema, fare merenda insieme. Non dobbiamo stare in camera tua per forza. Scrivimi.»

Fissò il bigliettino con il mio numero.

«Questo è un cinque?»

«È un cinque.»

Aprì il cassetto della scrivania e vi ripose il biglietto con il mio numero.

«Con chi vai più d’accordo?» gli chiesi. Prima di tornarmene a casa, pretendevo che si sbottonasse anche lui con qualche confidenza.

«Parli dei ragazzi o degli operatori?»

«Ragazzi. Ma dimmi anche degli operatori.»

«Un po’ con tutti. Forse tra i ragazzi…» fece una pausa. «Forse Diego Frosio, anche se mi ha riso in faccia. Oppure…» Si fermò di nuovo, ma stavolta non per riflettere. Avevamo udito il rumore di una sedia rovesciata a terra e io sobbalzai dal letto.

«Lello, ma sei impazzito?» urlò un’operatrice.

«Vaffanculo. Sono incazzato.»

«Non ti passerà il nervoso lanciando sedie.»

«L’assistente sociale è una troia. Io l’ammazzo. Non mi fa vedere mia madre nemmeno questo fine settimana.»

Uscii dalla camera di Luca per rendermi utile. Anche un altro operatore ebbe la mia stessa idea.

«Bisogna mettere le catene ai letti. Io continuo a dirlo. Prima o poi mi ascolteranno,» si lamentò l’uomo. «Piantala immediatamente o tua madre non la vedi per tutto il mese.»

«Vaffanculo pure a te,» rispose e si chiuse in camera sua sbattendo la porta.

Rimasi immobile in mezzo alla sala e nessuno fece caso a me. L’uomo allargò le braccia e comunicò ad Angela e a un’altra operatrice tutto il suo disappunto: «Qui bisogna fare qualcosa. Appena torna la nostra direttrice le parlo vis a vis. Non si può lavorare in queste condizioni. Quando facevo l’infermiere in ospedale, soggetti come lui li legavamo al letto finché non si trasformavano in agnellini.»

Rimasi in disparte, mentre Angela confabulava con i colleghi. Luca non poteva scegliere momento migliore per aprire la porta di camera sua e venirmi incontro.

«Non ho scarabocchiato troppo su questo biglietto. Si legge ancora il mio numero,» disse.

«Ti ringrazio.» Era leggibile persino il suo indirizzo. Le lettere contornate di rosso lo risaltavano.

In basso a destra, Luca aveva abbozzato un disegnino, diverso dai soliti scarabocchi informi e vuoti. Sembrava una montagna.

 

Prima montagna

«Devi rassegnarti,» dice il ragazzo con l’apparecchio ai denti. «Nessuno si è mai fermato per così poco tempo.»

«La mia situazione è diversa» ribatte Luca. «Mi hanno assicurato che la mia permanenza durerà fino all’estate.»

«Oh, ma davvero?» Il ragazzo con l’apparecchio ai denti sfodera un ghigno e Luca non può fare a meno di notare che gli si è depositato dello sporco sotto le placchette di metallo. «E chi te l’ha detto? L’assistente sociale? La direttrice? Non ascoltarli. Lo fanno per tenerti buono.»

«Ma è la verità.»

«Ti aspettano come minimo due o tre anni.»

«Non ci credo.»

«Fidati. So come girano le cose qua dentro.»

 

 

Non era come me la immaginavo. Ammesso si possa immaginare un posto di cui si ignora l’esistenza.

Quando fui assegnato alla comunità per adolescenti di Rio Guado, mi aspettai di trovarmi in un reparto ospedaliero. Oltre alla puzza di disinfettante nei corridoi, avrei dovuto sopportare le battute dei colleghi sulla mia età. O almeno così mi diceva la frustrazione. Io speravo saltasse fuori un lavoro per una società finanziaria ed ero tentato di lasciare questo incarico a un ventenne fresco di studi.

Ma i miei genitori si sarebbero opposti con tutte le loro forze a ogni tentativo di diserzione. Mi avevano obbligato a iscrivermi al bando. Mi raccomandarono di prepararmi e di non fingermi sociopatico al test attitudinale. Se replicavo che avrei guadagnato un terzo rispetto al mio vecchio stipendio da impiegato, mi invitavano a tornare a casa per non pagare le spese di vitto e alloggio. Nei loro sogni, ero destinato a ripetere una vita da studente con i soldi contati per la birra.

Mio padre scopriva all’età di sessant’anni che ospitavamo sul nostro territorio una comunità. Avrebbe preferito vedermi aggirare tra gli scaffali della biblioteca comunale, piuttosto che in mezzo a ragazzi con disturbi mentali. I figli dei suoi amici avevano svolto tutti il servizio civile in biblioteca o al museo della radio. Non capiva perché costituivo un’eccezione.

Nemmeno io avevo mai sentito parlare di una comunità attiva dalle nostre parti dal 1994. A sorpresa, l’indirizzo non corrispondeva a quello dell’ospedale. Si trovava in una via laterale del quartiere dei negozi. In centro e a due passi dalla stazione. Anche dopo aver saputo queste informazioni, non ero in grado di risalire alla sua posizione esatta. Era in una zona residenziale di villette e condomini di due o tre piani al massimo. Di notevole, c’erano un parcheggio a ore, un CAF e una pizzeria d’asporto.

Alla lista potrei aggiungere un’abitazione privata. La casa dalle pareti verdi azzurre di Flora, una ragazza che frequentava la mia stessa compagnia ai tempi del liceo. Nonostante non fossi di strada, toccava sempre a me riaccompagnarla a fine serata. I miei amici dicevano che non aveva rispetto per il gruppo. La rimproveravano di essere aggressiva e di non darla a nessuno. Ricordo con lei soltanto conversazioni di circostanza. A volte però mi schiudeva il suo piccolo mondo, additando un cancello o l’altro della sua via. «Qui abita la mia maestra delle elementari.» «I miei stanno valutando di comprare questa casa all’asta.» «Quando ero piccola, c’è stata una sparatoria sotto il nostro balcone». Ero quasi sicuro che nelle sue rassegne non avesse mai fatto riferimento alla comunità. Magari un giorno, uscito dal lavoro, l’avrei incrociata e ne avremmo parlato.

Al momento però non nutrivo alcuna curiosità per la struttura e non tentai un sopralluogo. Mi tornò alla mente, insieme alle passeggiate serali con Flora, una mia lettura giovanile. La storia di un monaco buddista ossessionato a tal punto dalla bellezza del Padiglione d’oro da incendiarlo. Chissà se il mio disinteresse si sarebbe trasformato in un vero e proprio culto morboso, come succede al personaggio di Mishima. Per quel che mi riguardava, la comunità poteva andare a fuoco, ma solo per rimandare il più possibile la mia entrata in servizio.

Ovviamente non si registrarono incidenti di origine naturale o dolosa. Anzi, contro le mie previsioni distruttive, la responsabile mi disse al telefono di presentarmi una settimana prima della data convenuta.

Scartata l’ipotesi del reparto ospedaliero, continuai a figurarmi gli stessi interni asettici, intrisi della puzza di disinfettante. Da quando ero rimasto senza lavoro, i pensieri prendevano direzioni inaspettate. Arrivai a chiedermi il motivo per cui ero stato selezionato dall’ente promotore. Non mi ero mai occupato di educazione né di assistenza sanitaria (e se il progetto fosse in realtà un percorso? In comunità. Da utente. Che sarebbe durato anni?). Ero riluttante a iniziare il servizio civile, ma almeno avrei scacciato la negatività che colpisce un disoccupato.

 

Non ero abituato a chiamare il curriculum domanda, lo stipendio indennità, il contratto progetto, il lavoratore volontario. Ma ancora meno ero abituato a sostenere un colloquio di selezione nella sala d’aspetto di un centro psichiatrico.

Avevo provato e riprovato la mia presentazione senza mai essere soddisfatto della performance. Davanti allo specchio, tenevo sotto controllo i muscoli del viso, mentre le mani gesticolavano senza freno. La voce mi usciva poco pulita e tendeva ad abbassarsi. La difficoltà più grande riguarda però il contenuto. Cosa potevo dire di me stesso? Che ero un esperto contabile? Che avevo imparato a relazionarmi con gli altri, nonostante le mie inclinazioni contrarie? Che mi sarei occupato del registro spese della comunità? Forse il colloquio serviva a verificare le mie condizioni di salute mentale. In quel caso, mi sarei sentito più a mio agio a descrivere le macchie di Roscharch, al posto di raccontare i miei trascorsi.

Quando arrivai al centro, un uomo sulla quarantina strattonava i braccioli della poltrona. Al mio passaggio sprofondò nello schienale, mostrando solo la testa o, meglio, i capelli ingellati e tinti di viola.

«Che ore sono?» chiese alla signora accanto a me.

«Se cinque minuti fa erano le dieci, adesso sono le dieci e cinque,» rispose senza scomporsi, mentre si sistemava il cappotto sulle ginocchia.

«La dottoressa è in ritardo.»

«Non è in ritardo» replicò. «Sta visitando un paziente.» Poi si rivolse verso di me: «Come minimo avrà l’appuntamento a mezzogiorno.»

Abbozzai un sorriso. La donna ricambiò con una smorfia. Se avessi dovuto scommettere sul motivo della sua presenza a un centro psichiatrico, avrei puntato sul fatto che era venuta a ritirare la ricetta dimenticata da un parente.

«Ma tu non sei il nipote di Lena?»

«Conosceva mia nonna?»

«Chi non conosce la bidella storica di Rio Guado! Mi è dispiaciuto quando è  morta. Ma quanti anni aveva? Non era così anziana, o sbaglio?»

«Ne aveva compiuti ottantuno la settimana prima.»

La gente sopra i quarant’anni d’età mi identificava come il nipote di Lena. Di solito, si premuniva di farmi sapere il cognome o che era figlio del postino o dove abitava. Io fingevo di riconoscerla e promettevo di riportare i saluti a mia nonna. Persino l’uomo che aveva chiesto l’ora, se era originario delle nostre parti, sicuramente la conosceva e ne conservava un buon ricordo.

«Una donna autorevole. A scuola era rispettata più delle insegnanti,» disse fiera delle sue parole di epitaffio. «E tu invece come mai sei qui?»

Ero convinto che la regola non scritta dei centri psichiatrici fosse evitare di informarsi sui disturbi mentali altrui.

«Io veramente ho un colloquio di lavoro,» restai sul vago. Mi indisponeva parlare di servizio civile.

«Guarda che non c’è niente di cui vergognarsi ad avere bisogno dello psichiatra. Mica ci vanno solo i matti,» lanciò un’occhiata all’uomo sprofondato nella poltrona. Come obiezione, si udì un lamento provenire dall’invisibile gorgo in cui stava precipitando.

«Ci mancherebbe,» dissi. «Ogni tanto prendo anch’io delle gocce per dormire.»

«Bah.» Non era persuasa.

Per fortuna, la dottoressa arrivò in mio soccorso. Appena la vide nel corridoio, l’uomo risalì dalla poltrona. Si spinse in avanti aggrappandosi ai braccioli. Ma fu invitato a risedersi. Non era ancora il suo turno.

«Prego, Gabriele. Si accomodi.»

Il tavolo sembrava un piano cottura senza fornelli. Sul un lato erano appese delle lettere magnetiche colorate, che formavano una scritta priva di significato. Salvo estrometterne o aggiungerne qualcuna, se si combinavano vocali e consonanti in modo diverso, il risultato non cambiava: BANCI  –  CINAB – BACIN – IBANC .

La dottoressa si avvicinò alla finestra e la chiuse: «Lo so che fa un freddo cane, ma un paziente ha insistito perché la lasciassi spalancata.»

Le sue parole ebbero su di me un effetto rilassante. Le aveva pronunciate con affetto, come se si fosse scusata dei giocattoli sparsi per casa dal suo bambino. Non avvertii pressione nemmeno quando sfilò la mia scheda da una cartelletta verde.

«Il suo profilo corrisponde alla posizione richiesta dalla nostra comunità. Ne siamo convinti io, la responsabile, la mia collega psicologa. Non c’è molto da aggiungere.»

Con la coda dell’occhio guardai i dati sulla scheda. Erano i miei. Riconobbi il mio nome e l’indirizzo della casa dei miei genitori. Non avevo ancora ufficializzato sui documenti il cambio di residenza.

«Sono venticinque ore a settimana. Quattro di riunione. Due ore di report. Può compilarlo benissimo a casa. Per la maggior parte del tempo, parteciperà alle attività con il ragazzo che le è stato affidato. Se trascorrete la mattina da soli, il pomeriggio unitevi al gruppo degli utenti e viceversa. Questo è tutto. Ha domande?»

«Dovrò seguire un ragazzo quindi?»

«Sì, ma non si preoccupi, è un tipo tranquillo, silenzioso. Non crea problemi.» Scorse la mia scheda con la punta della penna e segnò delle X alle caselle. «Luca è qui da noi da pochissimo tempo e vuole già scappare. Deve ancora adattarsi. Crediamo abbia bisogno di un sostegno psicologico, di una figura con cui confrontarsi e che non avverta come troppo più grande di lui.»

«Capisco,» dissi, anche se in realtà non capivo. Non avevo la sensibilità adatta a consolare un adolescente. Al massimo, avrei potuto insegnargli la partita doppia.

«Sia chiaro, non c’è una sentenza del tribunale dei minori che lo obbliga a restare. Gli è stato però consigliato questo percorso dalla sua dottoressa, dopo un ricovero ospedaliero. Sarebbe una sconfitta per tutti, se decidesse di abbandonare la comunità di punto in bianco. Si incrinerebbero i nostri stessi valori di formatori, non crede?»

«Ma perché si trova così male? Gli è successo qualcosa?»

«Non accetta la sua malattia e da noi si sente un pesce fuor d’acqua. Ma lo chieda a lui direttamente. Lo faccia parlare, mi raccomando.»

Uscii dal centro con il rimpianto di non svolgere il servizio civile rimproverando i lettori che consegnano in ritardo i libri della biblioteca.

 

Avevo dimenticato come ci si sente al primo giorno di lavoro.

Mentre mi sforzavo di addormentarmi, si affastellarono ricordi privi di memorabilità. Conversazioni sterili e avvenimenti di tutti i giorni. La cassiera che mi chiede di ripesare le albicocche: «Scusi. Non mi legge il prezzo». Scaldai a microonde l’acqua per la tisana, ma fu inutile. Non mi conciliarono il sonno nemmeno i film della fascia notturna.

All’università ero diventato apprendista contabile presso lo studio di un amico di mio padre. Trascorrevo la maggior parte del tempo davanti a un software gestionale o all’aperto a sbrigare commissioni, come pagare le bollette e ritirare le ordinazioni per il pranzo. Qualunque mansione, pur di non parlare al telefono con i clienti. Ero impacciato. Non sapevo rispondere alle domande senza consultarmi con i colleghi. A volte spazientivo l’interlocutore, che si convinceva a torto di essere preso in giro. Per ironia della sorte, negli anni successivi non avrei fatto altro che questo.

Dopo l’apprendistato, entrai in un istituto di credito per sostituire una donna in maternità. All’inizio era un vero incubo. Non riuscivo a ritagliarmi un’ora di isolamento. C’era sempre qualcuno a cui dare retta e se i clienti non mi trovavano al telefono, venivano direttamente in ufficio. Volevo approfittare delle vacanze di Pasqua per presentare le dimissione. E invece rimasi là dentro quasi sei anni.

Gli amici della mia compagnia cambiavano lavoro ogni volta che uscivo con loro. E chi aveva una posizione stabile continuava a sostenere colloqui, anche se non accettava la proposta economica. Io alla fine mi abituai alla routine dell’ufficio. Ritenevo assurdo passare il mio tempo libero a leggere annunci davanti alle vetrine delle agenzie. Mi bastava portarmi a casa lo stipendio. Poi arrivò la crisi, ma preferii chiudere gli occhi e pensare che i tagli del personale non mi avrebbero riguardato.

Prima di scendere controllai di aver spento la lampada da tavolo. Di giorno, la sua luce era fioca. Dovevo premere diverse volte l’interruttore per accorgermi se la conchiglia da dove fuoriusciva la madonna era illuminata o meno. Poi mi voltai verso il ritratto di San Rocco sopra la specchiera. È difficile sentirsi incoraggiati da qualcuno che si si alza la tunica per mostrare i segni della peste sul proprio ginocchio.

Casa mia era piena di oggetti religiosi. Appartenevano a mia nonna. Dopo la sua morte sono andato a vivere in casa sua, ma non li avevo ancora rimossi. Non tutti almeno. Regalai i più ingombranti a una pesca di beneficenza. Ma ce ne avevo ancora molti e non sapevo come disfarmene, senza ricorrere alla discarica. Uno di questi era una boccetta con l’acqua benedetta del santuario di Caravaggio. Ero tentato di bermela d’un fiato, talmente mi sentivo giù di morale. Non pretendevo un miracolo. Volevo tornare alla mia solita vita.

Sulle scale incontrai la mia dirimpettaia con in mano le borse della spesa. L’odore del pollo arrosto mi avvisava che era giorno di mercato. Ogni giovedì mattina, lei e mia nonna avevano preso l’abitudine di fare un giro tra le bancarelle e di comprare un pollo da dividersi al furgoncino vicino alla piazza. Ora la metà avanzata spettava a me. Io ricambiavo di tanto in tanto con qualche souvenir proveniente da Lourdes o Pietrelcina.

«Io rientro e tu esci. Giusto così. Eh! Eh!» Sorrise. Poi appoggiò le borse sul pianerottolo e si fermò a riprendere fiato.

«Le do una mano. Prendo io la spesa.»

«Vuoi mangiarti anche la mia parte di pollo?» Nascose le borse dietro la schiena e le uscì una voce stridula: «Non si fa!»

A quanto pare, la mia vecchietta aveva voglia di scherzare. La mia presenza nello stabile aveva attenuato il dolore della perdita dell’amica. Entrambe erano rimaste vedove in giovane età e si erano fatte forza a vicenda, fino a diventare inseparabili. Nelle settimane seguenti al lutto, se mi vedeva in paese, mi raccontava quanto mi volesse bene mia nonna. Mi dava un buffetto e scoppiava a piangere.

«Mi arrendo,» stetti al gioco. «Con lei in circolazione, mi chiedo come sia possibile derubare i pensionati fingendosi ispettori dell’Enel.»

«Io non faccio entrare in casa nessuno,» alzò in aria l’indice. Lo ritrasse e mi squadrò. «Tu non conti. Sei stato presentato,» aggiunse. «E tua nonna era più diffidente di me con gli estranei.»

Era vero. Se arrivava l’idraulico per riparare la perdita d’acqua, mia nonna lo lasciava fuori dalla porta e si faceva dare le istruzioni.

«Vai al mercato adesso o farai tardi.»

«Veramente, sto andando al lavoro.»

«Quelli della finanziaria ti hanno ripreso?» Non mi diede il tempo di risponderle, che con i suoi baci mi bagnò le guance di saliva. «Sono contenta!»

«Non proprio,» mi liberai dalla stretta. «Ho trovato un altro posto.»

«Il servizio civile? Giusto? Mi aveva accennato qualcosa tua madre.» Afferrò una bottiglia di spuma da un sacchetto e ne bevve una lunga sorsata.

«Sì, almeno sono vicino a casa.» Mi resi conto di non averlo detto come giustificazione, ma per ricevere in cambio una pacca sulla spalla.

«Siamo in crisi e stai lavorando. Dobbiamo festeggiare.» Guardò la bottiglia che teneva in mano e la avvitò. «Non con la spuma, ovvio.»

«Il nostro solito bicchierino di idromele?»

«Buona idea,» disse. «Stasera quando vieni a ritirare il polletto, facciamo un brindisi.»

«Volentieri.» Guardai l’orologio. Era ancora presto.

«Ora vai. Non arrivare in ritardo per colpa mia.»

«Ho ancora tempo,» la rassicurai.

«Puoi farti un giro al mercato.»

«In effetti, stavo pensando proprio a questo. La saluto.»

Scesi le scale con il gatto pezzato di un’inquilina. Avrei dovuto riportarlo alla sua padrona, ma mi aveva sempre inquietato l’espressione minacciosa derivata dalle tumefazioni sul muso. Inoltre, mi era salita l’ansia e non vedevo l’ora di camminare all’aria aperta. Nonostante le intenzioni manifestate alla mia dirimpettaia, avrei evitato la confusione delle bancarelle, scegliendo vie secondarie.

«Ehi!» Mi diede una voce dal pianerottolo. «Dopo il brindisi, ho una proposta da farti.»

«Va bene,» risposi. «A stasera.»

Data la mia condizione, si sarebbe probabilmente offerta di pagarmi la connessione a internet.

 

Per strada c’era una confusione di gente, che il freddo delle precedenti settimane era riuscito a tenere a bada, persino nei giorni di mercato. Mi sembrava di essermi svegliato alla fine della sessione invernale. Ho un’immagine di me che accetto il 25 a cui ero abbonato, e raggiungo i miei compagni di corso sul terrazzino della biblioteca di Studi Economici. Non so per quale motivo, quando sostenevo l’ultimo esame di febbraio, usciva sempre una giornata luminosa. Accendevo una sigaretta liberatoria, mi slacciavo il cappotto e si diradavano le ombre lunghe delle notti passate sui libri.

«Vai già a casa?» si lamentava qualcuno. «Hanno aperto una nuova birreria dietro l’università. Vieni a festeggiare la fine degli esami.»

Io non mi lasciavo coinvolgere troppo dai miei compagni o dalle attività universitarie. Non ero iscritto a un movimento studentesco, non collaboravo alla rivista dei giovani economisti e non giocavo nella squadra di calcio della mia facoltà. Dopo le lezioni e lo studio in biblioteca, tornavo a casa.

«Ma si può sapere che cosa c’è di così interessante a Rio Guado?»

A una certa ora gli autobus passavano con meno frequenza. Ma la verità era che desideravo laurearmi in fretta e la mia cittadina rappresentava un rifugio sicuro dalle distrazioni. Non mi importava di essere scambiato per un provinciale, che si sente sperduto nella metropoli.

«Ti costringeremo a fermarti con la forza. E ti metteremo sotto torchio. Non dici mai niente di te.» Proponevano di offrirmi un giro di bevute e ospitalità. Tornando indietro nel tempo, mi sarei lasciato convincere senza accampare scuse.

Non avevo fazzoletti in tasca per asciugarmi il sudore dietro alla nuca. Mi ero infilato in una traversa e camminavo con passo sostenuto. Il bar dei cinesi godeva di una buona posizione e nei giorni di mercato era alla mercé di avventori occasionali e dei bancarellari che dovevano usare il bagno. La Bolgia invece non aveva brioches. Optai per una caffetteria minuscola, di quelle che hanno due tavolini di rappresentanza e il bancone è preso d’assalto.

L’odore del pollo arrosto aveva stuzzicato il mio appetito. Presi un cappuccino con il cacao sopra e una brioches vuota per evitare di impiastricciarmi le mani di marmellata. La radio accompagnò la notizia delle dimissioni del presidente egiziano Mubarak con il nuovo singolo di Lady Gaga. «Questa era Born this way. E speriamo che anche i nostri amici egiziani siano sulla giusta strada,» disse lo speaker uomo. «Non solo loro. Speriamo anche noi italiani!» aggiunse la speaker donna.

Mentre rovesciavo le monete dal portafoglio, sentii una mano picchiettare la mia spalla.

«Gabo!»

Mi voltai. Lo riconobbi a stento in giacca e cravatta. Era Lucio, ma lo chiamavamo tutti Sid Vicious, anche se fisicamente era all’opposto del cantante dei Sex Pistols. Calvo e con un folta barba nera. Girava nella mia compagnia, ma di solito aveva un abbigliamento più informale. Non si faceva problemi a presentarsi in tuta.

«Ma che fine hai fatto? Non ti fai più vedere.»  Le sue parole non avevano l’aria di un rimprovero. «Confessa. Ti sei trovato la ragazza?»

«Magari, Sid! È stato un periodo un po’ impegnativo.»

«Sul lavoro, tutto a posto?»

«Tutto a posto,» ripetei.

«Ascolta,» disse. «Sabato pensavamo di andare al Diner. C’è un concerto. Fanno cover. Punk, rock, roba del genere. Prenoto anche per te?»

«Dopocena, intendi?»

«Sì. Ma volendo, possiamo mangiare qualcosa lì. Gli hamburger sono ottimi. Li hai ma provati? Oppure una grigliata di carne se ti va.»

«Ti faccio sapere stasera,» presi tempo. «Però preferirei bere e basta.»

«Perfetto. Avverto gli altri che ci sei.»

«Aspetta,» lo bloccai. «Stasera ti mando un messaggio di conferma.»

«Saranno tutti contenti di vederti.»

Sid Vicious doveva ritenere il mio messaggio di conferma una pura formalità. Io però non ero del suo stesso avviso.

Storia della montagna 1.2

Prima di uscire controllai di aver spento la lampada da tavolo. Di giorno, la sua luce era fioca. Dovevo premere diverse volte l’interruttore per accorgermi se la conchiglia da dove fuoriusciva la madonna era illuminata o meno. Poi mi voltai verso il ritratto di San Rocco sopra la specchiera. È difficile sentirsi incoraggiati, al primo giorno di lavoro, da qualcuno che si si alza la tunica per mostrare i segni della peste sul proprio ginocchio.

Casa mia era piena di oggetti religiosi. Appartenevano a mia nonna. Dopo la sua morte sono andato a vivere in casa sua, ma non li avevo ancora rimossi. Non tutti almeno. Regalai i più ingombranti a una pesca di beneficenza. Ma ce ne avevo ancora molti e non sapevo come disfarmene, senza ricorrere alla discarica. Uno di questi era una boccetta con l’acqua benedetta del santuario di Caravaggio. Ero tentato di bermela d’un fiato, talmente mi sentivo giù di morale. Non pretendevo un miracolo. Volevo tornare alla mia solita vita.

Sulle scale incontrai la mia dirimpettaia con in mano le borse della spesa. L’odore del pollo arrosto mi avvisava che era giorno di mercato. Ogni giovedì mattina, lei e mia nonna avevano preso l’abitudine di fare un giro tra le bancarelle e di comprare un pollo da dividersi al furgoncino vicino alla piazza. Ora la metà avanzata spettava a me. Io ricambiavo di tanto in tanto con qualche souvenir proveniente da Lourdes o Pietrelcina.

«Io rientro e tu esci. Giusto così. Eh! Eh!» Sorrise. Poi appoggiò le borse sul pianerottolo e si fermò a riprendere fiato.

«Le do una mano. Prendo io la spesa.»

«Vuoi mangiarti anche la mia parte di pollo?» Nascose le borse dietro la schiena. «Non si fa!» Le uscì una voce stridula. Pareva di buon umore la vecchietta.

Storia della montagna 1.1

Non era come me la immaginavo. Ammesso si possa immaginare un posto di cui si ignora l’esistenza.

Quando fui assegnato alla comunità per adolescenti di Rio Guado, mi aspettai di trovarmi in un reparto ospedaliero. Oltre alla puzza di disinfettante nei corridoi, avrei dovuto sopportare le battute dei colleghi sulla mia età. O almeno così mi diceva la frustrazione. Io speravo saltasse fuori un lavoro per una società finanziaria ed ero tentato di lasciare questo incarico a un ventenne fresco di studi.

Ma i miei genitori si sarebbero opposti con tutte le loro forze a ogni tentativo di diserzione. Mi avevano obbligato a iscrivermi al bando. Mi raccomandarono di prepararmi e di non fingermi sociopatico al test attitudinale. Se replicavo che avrei guadagnato un terzo rispetto al mio vecchio stipendio da impiegato, mi invitavano a tornare a casa per non pagare le spese di vitto e alloggio. Nei loro sogni, ero destinato a ripetere una vita da studente con i soldi contati per la birra.

Mio padre scopriva all’età di sessant’anni che ospitavamo sul nostro territorio una comunità. Avrebbe preferito vedermi aggirare tra gli scaffali della biblioteca comunale, piuttosto che in mezzo a ragazzi con disturbi mentali. I figli dei suoi amici avevano svolto tutti il servizio civile in biblioteca o al museo della radio. Non capiva perché facevo eccezione.

Nemmeno io avevo mai sentito parlare di una comunità attiva dalle nostre parti dal 1994. A sorpresa, l’indirizzo non corrispondeva a quello dell’ospedale. Si trovava in una via laterale del quartiere dei negozi. In centro e a due passi dalla stazione. Anche dopo aver saputo queste informazioni, non ero in grado di risalire alla sua posizione esatta. Era in una zona residenziale di villette e condomini di due o tre piani al massimo. Di notevole, c’erano un parcheggio a ore, un CAF e una pizzeria d’asporto.

Alla lista potrei aggiungere un’abitazione privata. La casa dalle pareti verdi azzurre di Flora, una ragazza che frequentava la mia stessa compagnia ai tempi del liceo. Nonostante non fossi di strada, toccava sempre a me riaccompagnarla a fine serata. I miei amici dicevano che non aveva rispetto per il gruppo. La rimproveravano di essere aggressiva e di non darla a nessuno. Ricordo con lei soltanto conversazioni di circostanza. A volte però mi schiudeva il suo piccolo mondo, additando un cancello o l’altro della sua via. «Qui abita la mia maestra delle elementari a cui sono molto affezionata.» «I miei stanno valutando di comprare questa casa all’asta, ma non vogliono correre rischi.» «Quando ero piccola, c’è stata una sparatoria sotto il nostro balcone». Ero quasi sicuro che nelle sue rassegne non avesse mai fatto riferimento alla comunità. Magari un giorno, uscito dal lavoro, l’avrei incrociata e ne avremmo parlato.

Al momento però non nutrivo alcuna curiosità per la struttura e non tentai un sopralluogo. Mi tornò alla mente, insieme alle passeggiate serali con Flora, una mia lettura giovanile. Un monaco buddista ossessionato dalla bellezza del Padiglione d’oro progetta di incendiarlo. Chissà se il mio disinteresse si sarebbe trasformato in un vero e proprio culto morboso, come succede al personaggio di Mishima. Per quel che mi riguardava, la comunità poteva andare a fuoco, ma solo per rimandare il più possibile la mia entrata in servizio.

Ovviamente non si registrarono incidenti di origine naturale o dolosa. Anzi, contro le mie previsioni distruttive, la responsabile mi disse al telefono di presentarmi una settimana prima della data convenuta.

Scartata l’ipotesi del reparto ospedaliero, continuai a figurarmi gli stessi interni asettici, intrisi della puzza di disinfettante. Rimasto senza lavoro, i pensieri prendevano direzioni inaspettate. Arrivai a chiedermi il motivo per cui ero stato selezionato dall’ente promotore. Non mi ero mai occupato di educazione né di assistenza sanitaria (e se il progetto era in realtà un percorso? In comunità. Da utente. Che sarebbe durato anni?). Ero riluttante a iniziare il servizio civile, ma almeno avrei scacciato la negatività che colpisce un disoccupato.

Lea e Fulvio – Scaletta

ATTO 1

1. Aperitivo natalizio alla Bolgia
-Il direttore prova ad ammansire i dipendenti
-Fulvio mostra a Lea i quadri alle pareti e racconta la leggenda di Silvia Prati

(Lea appoggia una mano su quella di Fulvio, si paragona a Silvia Prati e pensa di non stare molto simpatica a Mariachi. Un avventore saluta Fulvio e fa riferimento alla spedizione scientifica*)

2. Fulvio esce a comprare gli ultimi regali
-Collauda un totem in un negozio di abbigliamento in cambio del 20% di sconto
-Va al parco vede una bambina giocare da sola e ha un’allucinazione visiva

3. Vigilia di Natale alla Bolgia con gli amici
-Fulvio si annoia e pensa a Lea
-Fulvio parla al bancone con Mariachi

Discorsi sui totem, Brindisi, Fulvio chiede a Tommaso se ha notizie di Linda, *, con Mariachi si parla dell’inappetenza dei colleghi, dell’impossibilità di inquadrare Lea e il direttore, sketch con Fulvio e il traslocatore sulle doti di Mariachi di conoscere gli altri. Dà gli avanzi dell’aperitivo alla bambina del parco

4. Coprifuoco di Santo Stefano
-Fulvio ha l’asma e ripensa alla spedizione

5. Rientro al lavoro
-Il direttore chiede a Fulvio di caricare un computer sulla macchina di Lea
-Reclutamento di Fulvio nella cooperativa dei traslochi (volontariato)
-Malignità dei colleghi su Lea

Mariachi sospetta che Lea sia una traditrice

ATTO 2.1

6. Prima missione
-Fulvio porta del cibo a casa di una famiglia e rientra nel magazzino della cooperativa.
-Fulvio resta i cooperativa con Pascale e ha modo di vederlo in azione, mentre fa un sopralluogo virtuale o parla con un cliente. Fa un riferimento ambiguo a Lea.
-Mentre è in fila al tabaccaio a un avventore gli viene rifiutato il bancomat. Viene trattenuto dal tabaccaio, ma fugge. Fulvio assiste a una cattura. 

7. Seconda missione
-Durante un vero e proprio trasloco, Fulvio ha modo di scoprire che è un’organizzazione più strutturata e gli viene chiesto di monitorare la situazione economica di Rio Guado.

Il traslocatore accompagna Fulvio in Bolgia perché deve parlare con il capo. Vede Lea e Pascale in intimità. Scopre che c’è stato qualcosa tra di loro e si ingelosisce.

8. Pedinamento di Lea
-Magheggi al lavoro. Fulvio teme di essere scoperto
-Scena in cui Fulvio cerca di dimostrare la buona fede di Lea

9. Rischi da correre?
-In ufficio si parla delle somiglianze tra Fulvio e il direttore, ma Cinzia non è d’accordo. Fulvio incontra in ascensore il direttore e gli confida le sue preoccupazioni sulle attività di Lea.
-Atto terroristico a un totem che viene incendiato

10. Esporsi e nascondersi
-Fulvio vuole abbandonare i traslocatori e discute animatamente con Lea.
-Lea e Fulvio giocano a nascondino con una bambina

Il direttore viene presentato come un uomo pericoloso che tiene Lea sotto controllo. Fulvio sospetta che Lea l’abbia manipolato o fosse solamente un’infiltrata. Confessione dei sentimenti di Fulvio. Spiega che il direttore non ha salvato suo padre.

ATTO 2.2

11. Momento di grazia
-Festeggiamenti insieme alla cooperativa dei traslochi
-Gita a Trieste

Incontro sul treno del direttore

12. Ritorno a casa di Linda intubata

13. Fulvio va a trovare la bambina del parco

14.Missioni di lavoro
-Fulvio affianca un collega per l’arresto di una persona senza credito.
-Il direttore propone a Fulvio un contratto di un anno

15. Fulvio avvisa il direttore che Lea non ha più credito

ATTO 3

16. Fulvio si deprime

17.Il direttore chiama i traslocatori per svuotare la stanza di Lea
-Ci vanno Pascale e Fulvio

18. Organizzazione fuga

19.Lea varca il checkpoint accompagnata da Fulvio e sotto la guida della bambina
-Incontrano il militare padre della bambina che viene ucciso perché ha salvato la vita
-Promesse
-Mariachi si prende cura della bambina

20.Epilogo

 

Coprifuoco

Hai un attacco d’asma per la terza notte di fila. Non era mai successo con questa frequenza. Nemmeno quando il coprifuoco era durato una settimana intera.

Secondo il medico soffri d’ansia e ti farebbe bene metterti a dieta. Ti ha prescritto l’aerosol dietro tua insistenza, ma non ne hai tratto giovamento. Mentre il tuo caposquadra sostiene che la responsabilità è di chi va in giro incurante dei divieti. Se le strade hanno bisogno di respirare, la gente deve rimanere a casa. Non ha il diritto di rubarti l’aria.

C’entreranno pure le sigarette o la polvere sotto il letto. A te importa poco. Non ce la fai più ad avere il fiato corto, come un ascensore che arranca tra un piano e l’altro. Così ti cacci in bocca l’inalatore e torni a sdraiarti sul lato opposto alla finestra. 

Non inveire contro le strade e il buio, perché senti un bruciore allo sterno. A dicembre hai lavorato sempre in ufficio. Solo a Santo Stefano, ti tocca il turno di notte. O forse i tuoi attacchi d’asma sono in realtà crisi d’astinenza? Potresti fare una passeggiata. Non ci sarà il coprifuoco, ma alle tre del mattino non si aggira nessuno a Rio Guado.

Il tuo più grande problema è che perdi troppo tempo a riflettere. Ti infili le pantofole e hai l’impressione di aver preso una decisione. L’affanno però non ti passa e sforzi i bronchi persino se sbadigli.